I primi di febbraio del 1996, a due o tre giorni dall’esordio in edicola, il Foglio uscì con un pezzo il cui titolo era, più o meno, “Di Pietro e Lucibello, storie di giudici e avvocati”. Era un pezzo pubblicato in una delle zone meno nobili del giornale, eppure col tempo si guadagnò l’appellativo di “madre di tutte le querele”: si rivelò la traccia per due lustri di controinchiesta sugli eroi della rivoluzione giudiziaria e sui loro fiancheggiatori politici. Primo inciso di molti: l’autore di quell’articolo è il sottoscritto che, otto anni più tardi, avrebbe compilato l’ultimo prima di andare a lavorare altrove: una colonna in prima su una sentenza della Cassazione che assolveva Giuliano Ferrara e il Foglio da tutte le pendenze con Antonio Di Pietro.
Si trattava, dissero i giudici, di una legittima campagna politica di stampo anglosassone le cui inevitabili inesattezze (qualcuna) non salivano al carattere di diffamazione. Una splendida chiusura del cerchio. Ora, con il tramonto di una stagione e del suo leader caratterizzante, Silvio Berlusconi, di cerchio se ne è chiuso un altro e Ferrara ne è uscito per tempo, per il dolore silenzioso perché intimo, ma squassante, di chi ha vissuto in parte o per intero quel ventennio. Non è altro che il tempo che passa, e il ricordo è uno dei lampi d’infinito che salvano quel segmento inutile che congiunge la nascita con la morte.
Noi eravamo al Borghese, di cui confezionavamo i numeri zero. Dalla sera alla mattina ci ritrovammo arruolati in una cosa che si chiamava Foglio: Ferrara non cercava che una sede e un manipolo di ragazzi di bottega per realizzare l’idea partorita da Beppe Benvenuto, un quotidiano di quattro pagine con l’ambizione di spiegare le notizie anziché darle. Entrarono nelle stanze di via Hugo, a Milano, e parevano la famiglia Addams. Giuliano straripante e giovanissimo (44 anni); Benvenuto sembrava Pippo di Walt Disney, alto, dinoccolato, col codino; Sergio Scalpelli era l’opposto, basso, curvo, coi boccoli biondi; Vichi Festa (che i lettori di Tempi conoscono bene) aveva l’aria di uno del Politburo, con le sopracciglia alla Leonid Breznev; Michele Buracchio era l’incarnazione di uno statale di Nikolaj Gogol.
Oltre a me, che venivo da Bergamo ed ero finito al Borghese grazie all’intercessione di Renato Farina e Luigi Amicone, c’erano Maurizio Crippa, ora vicedirettore, e Ubaldo Casotto, diventato a sua volta vicedirettore e adesso nello staff di Maurizio Lupi. Se ne sarebbero aggiunti molti, a breve. Christian Rocca, amico fra i più cari, che collaborava con l’Indipendente, passato in seguito al Sole 24 Ore e alla direzione del mensile IL; Daniele Bellasio, con la sua storia americana che l’ha condotto dalla correzione di bozze alla vicedirezione; Nicola Porro, ora vicedirettore del Giornale; Giancarlo Loquenzi, ora a Radiorai; Pietrangelo Buttafuoco, diventato scrittore di celesti funambolismi. Si potrebbe andare avanti per pagine.
Il numero zero
Partecipavo alle riunioni e capivo sì e no il venti per cento di quello che si diceva; la sera rincasavo e – a Giuliano non l’ho mai detto – piangevo da quanto mi sentivo inadeguato, e prendevo la decisione di dimettermi l’indomani e che l’indomani avrei fortunatamente disatteso, per tigna, la poca che mi riconosco. Questa non è un’autobiografia, ma i bagliori della memoria servono a ricostruire un clima. Per il primo numero zero, Giuliano mi chiese un pezzo: “Chi comanda davvero a Ivrea”, cioè all’Olivetti. Di economia non sapevo niente, chiamai uno della Repubblica così tutto d’un pezzo da fottere un collega di ventisei anni: Corrado Passera, mi disse. Passera se ne andò la settimana dopo. «Se non fosse scritto così bene ti manderei via», mi disse Giuliano. Ma Giuliano è uno che dà una seconda chance a tutti.
Ci spiegava – una sola volta – che quando si fa cronaca non si usano gli avverbi, che i virgolettati sono sacri (mica i virgolettati creativi della retroscenistica di oggi), che le cose non si guardano soltanto da davanti ma di lato, di dietro, da sopra, che vanno banditi i luoghi comuni (patate bollenti e fili del rasoio), che quando si sbaglia si accettano le rettifiche e si chiede scusa. Ci insegnò, senza dirlo, che i tumulti moralizzanti sono pappa per furbini e per illusi, e che la moralità è uno sforzo su di sé costante e silenzioso. Ci formò come giornalisti, il che vuol dire averci formato come persone.
Diversi dagli sceriffi
Era l’Italia in dominio delle procure, con le tricoteuse della politica sotto al patibolo, specialmente gli ex comunisti, che non coltivando un’idea del paese contavano di prenderselo per l’esibizione umoristica di Mani pulite. Loro e gli ex fascisti, cioè chi nella Prima Repubblica aveva occupato la parte sbagliata della storia. Poi arrivò Silvio Berlusconi e come è andata si sa. Il compito che Giuliano si era assegnato era di riscrivere la favola rimettendoci dentro il grigio scaturito dallo zolfo, due elementi scomparsi dalla cinematografia manichea e hollywoodiana che era il prodotto dei giornali di allora, e anche di oggi.
Ora è difficile riassumere, ma ci si prova così: la politica non si legittima nelle cancellerie dei tribunali, che si occupano di rei e di reati, ma con il confronto delle proposte, e non è una questione di bon ton, è roba da stomaci forti, di interessi precisi, in cui gli ideali sono una sfaccettatura, e in cui contano i risultati. Lavorammo in stato di grazia, inebriati dall’inimicizia e dall’ammirazione della categoria, avevamo proposto un nuovo modo di informare, c’era cura maniacale del linguaggio, Giuliano ogni sera leggeva ogni riga prima che andasse in stampa, raccontammo un mondo diverso da quello degli sceriffi e dei tagliagole rappresentato dall’epica infantile di Mani pulite. Ricordo la risata tonante di Festa quando trovavamo qualche verbale chissà perché sperduto nei fascicoli planetari di Milano, e che correggevano la trama perfetta. Diventammo tutti amici. Festa era un secondo padre, copriva e aiutava tutti, Casotto idem, noi giovani avevamo fatto squadra e la nostra amicizia oggi è quella della caserma.
Le partite in divisa nera elegante
Una sera, un paio d’anni più tardi, Christian Rocca e io ci ritrovammo con le bozze delle pagine sulla scrivania. Giuliano e Vichi e Casotto se n’erano andati per ragioni varie e ci avevano lasciato la chiusura. Eravamo chini sui titoli, a controllare refusi e ripetizioni. Alzammo lo sguardo insieme e ci guardammo negli occhi e ci venne da ridere. Ce l’avevamo fatta.
Rocca fu promosso caporedattore. Io divenni inviato e girai l’Italia il giorno in cui Giuliano mi disse (era il ’98): è morto Pietro Pacciani, vai a Firenze, restaci quindici giorni e quando torni mi scrivi cinquantamila battute. Per un giornalista, il paradiso. La sera si andava a giocare a calcio, perdevamo sempre 15-4, ma avevamo una divisa nera elegantissima, e ci sembrava molto più importante. Si organizzavano cene a casa di Filippo Facci, giornalista formidabile, a base di polenta e gorgonzola.
Eravamo così giovani, così applauditi, che sviluppammo un orrendo complesso di superiorità, difettaccio che continua ad accomunare quelli del Foglio, passati e presenti. Ma non ce ne importava nulla, eravamo un clan, Giuliano era il capobranco indiscusso e divinizzato, gli dovevamo la vita e avevamo la certezza che il Foglio non sarebbe esistito senza di lui, verità così lampante che lui soltanto poteva ribaltare. Mi rendo conto che la sfilata di aggettivi rischia di sfondare i confini del ridicolo, ma è la nostra vita, e quegli aggettivi ne fanno parte anche con il carico di ridicolo a cui nessuna vita sfugge.
Però un ruolo lo abbiamo avuto, credo. Un giorno Ezio Mauro disse che quelli del Foglio erano il nemico più pericoloso perché erano in errore ma non grossolani, perché le copie non sono mai state tantissime ma pesavano come il piombo. Bene, oggi – per quanto fiaccato e un po’ meschino – Berlusconi partecipa alle riforme costituzionali e viene ricevuto al Quirinale da Sergio Mattarella. A capo del governo e della sinistra c’è un giovanotto che la questione morale la mette intorno al ventesimo posto, e a noi di destra e sinistra non è mai fregato di meno. Gli ex comunisti, quelli con le mani cosiddette pulite, a Palazzo Chigi sono arrivati una volta soltanto e per congiura. Tonino Di Pietro è un simpaticissimo contadino che ara il campo di Montenero di Bisaccia. Se non è una vittoria, ci assomiglia alquanto.
Nessuno di noi, tranne Christian, è diventato direttore, e comunque Christian dirige IL che è un mensile stupendamente fogliesco ma – non se ne avrà – non è il New York Times. Va bene così, va benissimo perché abbiamo avuto più di quello che pensassimo e forse più di quello che meritassimo.
P.s.: Qualche giorno fa, Giuliano mi ha mandato un sms: «È stata una bellissima storia, e non è finita». Cazzo, certo che no. Noi siamo andati al Corriere, alla Stampa, al Giornale, al Sole, alla Rai, a Mediaset, a Panorama, persino al Fatto e alla Repubblica, siamo andati dappertutto portandoci appresso un pezzetto di Foglio e un pezzetto di Giuliano. Per quel che siamo capaci, continuiamo a raccontare il mondo osservandolo da sopra, da sotto, di lato, guardati un po’ di sbieco e sopportati come i vecchi rompipalle che siamo.