«Bene l’Ice Bucket Challenge, ma attenzione: la Sla è un pezzo di vita che ci chiede molto più di una secchiata di slogan»
Incredibile la velocità con cui «in pochi giorni star, intellettuali, scienziati, politici, capi di Stato di tutto il mondo e gente normale hanno cominciato a parlare di questa malattia di cui normalmente ci si interessa molto poco». Però, sottolinea il medico, bisogna evitare che tanta attenzione «si esaurisca in una moda passeggera». Perché chi soffre di questa malattia «va sostenuto in un percorso continuativo ben preciso, in un modello che è per tutti».
Dottor Lunetta, che reazione ha avuto scoprendo la sua lotta quotidiana improvvisamente condivisa da tutto il mondo?
È la prima volta che sento parlare della Sla in maniera così diffusa da gente che non se ne era mai interessata e da persone lontane dalla malattia. La sclerosi laterale amiotrofica di solito interessa solo a chi si ammala, quindi vedere questo coinvolgimento, aiutato sicuramente dalla genialità dell’iniziativa di un malato, mi ha fatto piacere. Diciamo che non mi sarei mai immaginato di veder partecipare persino i capi di Stato. Anche se bisogna dire che nemmeno tutto questo è sufficiente.
Che cosa non le torna?
Ho avuto anche delle percezioni negative, dovute alla voglia di protagonismo di alcuni dei protagonisti dell’iniziativa: mentre si comprende dai video e dai messaggi la sincerità e la vicinanza reali di certi personaggi, in altri, sopratutto alcuni italiani, ho visto una superficialità che fa a pugni con la malattia. Una partecipazione dettata dalla moda. Non a caso nel nostro paese c’è una discrepanza fra il numero delle persone che hanno registrato i filmati o scattato foto e quello delle donazioni. Al contrario di quanto è avvenuto negli Stati Uniti. Evitiamo il rischio che l’iniziativa si esaurisca in uno slogan.
Associare le staminali embrionali alla ricerca sulla Sla è creare una relazione non veritiera. Una ricerca seria oggi non può coinvolgere le cellule embrionali, perché non solo non sono efficaci, ma hanno un alto rischio tumorigeno. Forse negli anni Ottanta c’era chi nutriva qualche speranza, ma ora un ricercatore con un minimo di conoscenza e capacità non le utilizzerebbe mai. Per questo adesso l’attenzione del mondo scientifico è rivolta solo alle staminali adulte. L’Ice Bucket Challenge comunque permette di decidere a chi dare i fondi e ha finanziato tante associazioni serie. Anche se la Sla non ha bisogno della sola ricerca.
Il Centro Nemo infatti non fa solo ricerca. Perché non basta?
Noi partiamo dalla presa in carico del paziente. Oggi ci sono tantissimi centri di ricerca, ma pochissimi fanno presa in carico: si limitano a fare la biopsia, il prelievo, gli esami, ma così fanno scappare i pazienti che hanno bisogno di molto di più. Il nostro progetto è originale, anche se dovrebbe essere quello base, adottato da tutti: oltre che della presa in carico la Sla necessita di più expertise, e non solo neurologico.
Si riferisce all’approccio multidisciplinare?
Esattamente, perché quando il malato comincia a non camminare più occorre trovare l’ausilio adatto per spostarsi, ma il neurologo non ha l’esperienza per sapere quale sia il migliore. Se poi iniziano i primi disturbi respiratori, occorre intervenire immediatamente e qui servirà il pneumologo. Bisognerà quindi pensare alla nutrizione e alle analisi genetiche. Ecco perché il nostro centro, inserito appositamente all’interno dell’ospedale Niguarda, prevede che queste figure cliniche siano tutte presenti in uno stesso luogo fisico. Altrimenti si dovrebbero spostare da un reparto all’altro, il che diventerebbe complicatissimo oltre che ovviamente controproducente.
Addirittura?
Si immagina un malato grave curato da più medici che intervengono con approcci diversi e difficoltà ad incontrarsi e a comunicare fra loro? Il fatto di riunire tutti gli specialisti qui al Nemo impone loro di parlarsi e di lavorare in team. Questo con il tempo diventa un vantaggio anche per noi: dopo un po’ il neurologo avrà imparato a riconoscere certi sintomi dal pneumologo e viceversa. Ciò ci permette di lavorare benissimo e di accelerare il processo di presa in carico. Questa strategia si sta diffondendo nel mondo sanitario, eppure in quello della Sla, per il quale dovrebbe essere “fisiologica”, fatica a decollare. Inoltre, proprio la presa in carico e la clinica ci permettono di essere uno dei centri di ricerca con più pubblicazioni, autore di numerose sperimentazioni e posto all’interno di un network nazionale e internazionale.
Faccio un esempio pratico: un paziente era in vacanza fuori regione, si è sentito male ed è stato ricoverato nell’ospedale del luogo, dove ha rifiutato la tracheostomia. Il medico gli ha offerto un aiuto palliativo, spiegandogli che non potevano pensare al trasferimento. Ma la figlia ci ha chiamato dicendoci che voleva a tutti costi portare il padre al Centro. Oggi è qui, perché la donna ci ha detto: «Se il papà deve morire che sia al Nemo, non in quell’ospedale». Al di là di ciò che possiamo offrire – parliamo di una malattia ancora inguaribile – questo fatto mi ha provocato molto, facendomi sentire ancor più responsabile: se i pazienti chiedono addirittura di morire qui significa che questo pezzo finale di vita è importantissimo, che non è tutto uguale. È una questione di dignità, di sostegno competente dei malati, ma anche di amore. Per questo siamo diversi da un ospedale classico.
In che senso?
Nelle stanze, ad esempio, ci sono i letti per i congiunti. Abbiamo una sezione solo per i bambini. Ci sono le sale di svago, gli spettacoli organizzati e c’è persino il parrucchiere. Infine qui ha anche partorito una donna con la Sla e poi altre pazienti. Insomma cerchiamo di far sì che ci sia tutto quello che serve a una persona per vivere.
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