Haiti, cinque anni dopo la catastrofe. Voce e immagini di una presenza amica che allora era già lì e che «da lì non se ne va»
Italia Haiti anno quinto. 13 gennaio 2010: un terremoto squassa l’isola uccidendo oltre 220mila persone. Proviamo a riscriverlo, perché questo dramma, così lontano, nei Caraibi, oltreoceano, accanto alle spiagge bianche di Santo Domingo, proprio non va giù; o meglio, se ne è andato troppo in fetta e nessuno vuole ricordarlo.
Dicevamo… proviamo a riscrivere il numero dei morti: duecentoventimila abitanti, ovvero duecentoventimila persone come me, come i nostri figli, come i nostri padri, le nostre madri. Come noi. L’intera provincia di Siena, 36 comuni, è abitata da circa 270mila persone. Cancellate Siena, Montepulciano, Montalcino, Poggibonsi, le crete senesi, la Val d’Orcia e via così. Tutto polverizzato, le arnie dell’amico Antonio, le profumate colture di Claudio e le campagne tanto amate da Blaire! Ma continuiamo a fare i conti: terremoto di Irpinia 1980, 3mila morti; Aquila 2009, 150 morti. Alle elementari io ero in una classe con 22 bambini. Significa che nel terremoto di Haiti sono state spazzate via, annientate, uccise 10mila classi. Diecimila. Mi seguite?
Eppure, a cinque anni dal disastro, sembra che a nessuno interessi ricordare. A nessuno importa fermarsi e riflettere. Proviamoci.
E poi la gente. Mamme giovani e belle, bambini infiocchettati e sorridenti, giovani simpatici e con occhi a mandorla. E tutti curiosi. Volenterosi di imparare. In cucina nei centri nutrizionali, a scuola sui libri, nelle officine a lavorare o nei campi a seminare. Lavoretti, a volte troppo semplici, ma che aiutavano a uscire dal quotidiano per andare a incontrare il nuovo e la speranza. Quella che ho visto era una Haiti vibrante, ma già ferita. Orgogliosa, ma dolorante. In albergo una mappa ricordava le tratte delle grandi crociere, quando le navi con a bordo dame ingioiellate e uomini con sigari sbarcavano a Port-au-Price per scappare dal freddo dell’Occidente. Che poi, rispetto ad Haiti, quasi tutto è a Oriente. Un mondo scombinato. Un mondo sottosopra. Se negli anni Cinquanta si vendeva zucchero, rhum, sigari, riso, caffè e cacao, oggi (prima e dopo il terremoto) Haiti è uno dei paesi più poveri del mondo. Ma non per questo va dimenticata.
“Eravamo in ufficio a Port-au-Prince. La prima scossa è stata fortissima”. Era il 13 gennaio 2010 quando Fiammetta Cappellini di Avsi era l’unica voce da Haiti che comunicava con l’Italia via Skype il giorno dopo il terremoto che ha devastato l’isola (qui la sua testimonianza del 13 gennaio 2012, ndr). E prima ancora del terremoto, nel 2004, l’uragano Jeanne aveva già strapazzato e stremato la popolazione. Luigi (il direttore di Tempi) era sbarcato con un charter nella vicina Repubblica Dominicana e a bordo di uno sgangherato camioncino era andato alla ricerca del bambino che sosteneva a distanza. E lo aveva trovato in mezzo a una foresta, con la sua famiglia in una casa a forma di cubo: insieme a loro il suo insegnante. Perché in mezzo al nulla c’era una scuola, una comunità, delle famiglie. Mamme e bambini. E una chiesa. Semplice.
Dal 1999 Avsi ha fatto di Haiti una sua casa, come in tanti altri paesi sconsolati del mondo. Da lì non se ne va, grazie agli aiuti di tanti. Ha messo radici e impegno. Ma c’è ancora tanto da fare. Oggi più che mai in questo momento di profonda crisi anche politica. Partendo dalla dignità, cercando di sostenere gli amici di Haiti a costruirsi un luogo più giusto dove crescere i figli e far riposare il cuore.
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Le foto pubblicate in questa pagina sono tratte dalla galleria Flickr di Avsi: per vedere le altre immagini clicca qui.
Per sostenere l’impegno di Avsi nel paese e restare informati sui progetti si può fare riferimento a questo indirizzo: http://haiti.avsi.org
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