Greta contro le turbine eoliche colonialiste e lo scienziato dominato dall’ecoansia
L’eolico fa bene alla Terra ma le turbine eoliche fanno male ai pascoli, se poi si trovano in Norvegia fanno malissimo ai pascoli delle renne Sami e violano i diritti umani dei pastori. Lo ha stabilito la Corte suprema norvegese nel 2021, condannando l’esproprio delle terre e invalidando i permessi di esercizio dell’infrastruttura: la sentenza aveva fatto un gran chiasso ma nessuno s’era preso la briga di spiegare che cosa si doveva fare della mega infrastruttura.
E così le 151 possenti turbine della regione occidentale di Fosen hanno continuato a funzionare, emblema del più grande parco eolico onshore d’Europa. E funzionano ancora. Per questo mercoledì scorso centinaia di attivisti indigeni e ambientalisti hanno deciso di piantare le tende (e montare un accampamento “lavvu” Sami) sull’arteria principale di Oslo per protestare contro la “riluttanza del governo” ad intervenire: «È davvero un caso doloroso – ha spiegato al Guardian Ella Marie Hætta Isaksen, attivista Sami -. Sembra che il governo stia davvero eliminando strategicamente la cultura dell’allevamento delle renne. E questo spaventa molti giovani, perché per noi la nostra cultura è tutto. Ci sentiamo davvero come se non fossimo nulla senza le nostre terre o le nostre renne».
Greta alleata di renne e pastori Sami
Dopo di che i giovani hanno occupato l’androne nel Stortinget, il parlamento norvegese, bloccato «undici dipartimenti» nonché l’ingresso della Statkraft, l’azienda di produzione energetica di proprietà statale (proprietaria di 80 turbine), chiedendo ad ogni dimostrazione di conferire col re. E subito è arrivata – anzi, è tornata a sedere tra i Sami – anche Greta Thunberg, «una importante alleata della nostra causa».
Non nel mio pascolo: è una delle ultime battaglie di Greta Thunberg, ultimamente sempre pronta a prendere posizione seduta davanti a qualcosa, una miniera di carbone nel Nord Reno-Westfalia, una trivella petrolifera di Los Angeles, le autocisterne dirette al terminal di Malmö (la classe operaia a cui è impedito di lavorare ridotta a comprimario delle photo-opportunity della ecoinfluencer e suo benestante corteggio) e invocare «smettetela di bloccare la transizione verso l’energia pulita», «fermate immediatamente l’apertura di nuovi siti di estrazione di petrolio, gas e carbone», «la crisi climatica è già una questione di vita o di morte per innumerevoli persone. Scegliamo di non essere spettatori e invece di fermare fisicamente l’infrastruttura dei combustibili fossili».
Greta contro le turbine, «non usatele fare i colonialisti»
E siccome paternalismo genera paternalismo, eccola protestare anche per i Sami perché «non possiamo usare la cosiddetta transizione climatica come copertura per il colonialismo», «Una transizione climatica che viola i diritti umani non è una transizione climatica degna di questo nome». Per questo era già stata arrestata in primavera, o meglio “spostata” dalla polizia di Oslo di qualche metro, e non c’è alcuna contraddizione nel difendere i Sami dalle turbine e infliggerle al resto del Nord globalizzato, quello senza ghiaccio e renne, ma ammalato di «colonialismo, imperialismo, oppressione e genocidio», come annunciò dal suo buen ritiro di Stoccolma, quando ci lasciò con il suo secondo libro, The Climate Book, «strumento essenziale per chiunque voglia contribuire a salvare il mondo» (copy Mondadori) per far la guerra a «eterosessuali, bianchi, privilegiati, uomini di mezza età» (cioè come la maggioranza dei seguaci di Greta). E così tra allarme cambiamento climatico e colonialismo questa volta vince il secondo, abbasso le turbine, forza diritti umani.
Non è sempre stato pacifico: da quando esistono le quote discriminate il cortocircuito si sa che è dietro l’angolo. Valga da esempio il tragicomico putiferio scatenato dalla scoperta, fra i ghiacci dell’Antartide, che l’inquinamento del pianeta non ebbe inizio con la rivoluzione industriale e nemmeno con i ricchi bianchi europei sfruttatori di terre altrui, ma nel 1300 col fuoco appiccato alle foreste dai colonizzatori maori: nessuno del team di scienziati che armeggiò con le carote di ghiaccio era maori né interpellò un maori in ossequio alle leggi scritte o meno dell’inclusività, e tra allarme clima e allarme razzismo vinse il secondo.
I cortocircuiti clima, razza, gender. E lo scienziato con l’ecoansia
Ai cortocircuiti in materia – bianchi contro indigeni contro neri contro allarme Covid (ricordate il green pass che secondo Blm discriminava i neri?) contro discriminazione di Lgbtqi (vedi il caso dell’inquinante uniforme gender neutral del Sussex), donne contro uomini contro trans e ritorno alla casella razzismo, si potrebbe scrivere un nuovo agile Climate Book. Tuttavia a volte non serve nemmeno uno straccio di discriminazione: Gianluca Grimalda è uno scienziato che dopo aver studiato per mesi l’impatto del cambiamento climatico sugli abitanti della Papua Nuova Guinea, si è rifiutato di venire meno al suo impegno ambientale e di tornare in Germania in aereo, dicendosi pronto a collezionare 22 mila chilometri a bordo di navi, traghetti, treni e pullman di viaggio (come all’andata), per risparmiare al pianeta tre tonnellate di emissioni di carbonio.
E come lo ha premiato l’Istituto di Kiel per l’economia mondiale per il quale lo scienziato lavorava da dieci anni? Ma con una lettera di licenziamento. O almeno così gli hanno detto quando gli hanno ordinato di presentarsi in ufficio a inizio mese; Grimalda scoprirà che sarà di lui solo al termine del viaggio di ritorno, cioè tra quarantacinque giorni. Lo scienziato, che milita tra i Scientist Rebellion, è ontologicamente sia turbina eolica che pastore Sami, renna e Greta, allarme clima e diritti umani. Non dovesse vincere il derby contro ragione e buon senso ha un asso da calare: la salute mentale. «Il mio stato psicologico non può che essere descritto come di ansia climatica, e volare non può che peggiorare questa condizione».
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