Francesi stranieri a casa loro

Di Leone Grotti
16 Settembre 2018
Ha sconvolto la République, smentendo col suo studio la favola dei ragazzi spinti al fondamentalismo da povertà o emarginazione. Intervista a Olivier Galland, autore de "La tentazione radicale"
islam francia
epa04807477 Father and son pray during the Asr prayer (third prayer of the day) at the mosque part of the Institut Socioculturel des Musulmans (ISM - Muslim Sociocultural Institute) of the 18th arrondissement of Paris, France, 18 June 2015. The Mosque was opened in 2011 in a former military warehouse to answer the need of spaces for Parisian muslims to pray. In France, Ramadan runs from 18 June to 17 July 2015. EPA/ETIENNE LAURENT

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Tratto dal numero di Tempi di settembre

Giovedì 8 gennaio 2015. La vita riprende alacremente a Parigi fin dalle prime ore del mattino, ma la gente, la Francia, l’Europa, il mondo non sono più gli stessi. Neanche ventiquattr’ore prima, alle 11.30, i fratelli Said e Chérif Kouachi hanno fatto irruzione nei locali parigini del settimanale satirico Charlie Hebdo armati di kalashnikov e hanno massacrato dodici persone. Mentre sparavano all’impazzata gridavano «Allahu Akbar», Dio è il più grande, lasciando poco spazio a interpretazioni sulle motivazioni del loro gesto. È solo il primo di una lunga serie di attentati terroristici che avrebbero sconvolto l’Europa negli anni a venire, fomentati e spesso eterodiretti dai leader dello Stato islamico. Oggi dell’Isis non rimane molto, ma allora il Califfato occupava gran parte della Siria e dell’Iraq, minacciando di espandersi nel mondo intero.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”] Dopo la strage, il presidente François Hollande dichiara per l’8 gennaio il lutto nazionale e prevede il rispetto di un minuto di silenzio in tutti i luoghi pubblici della République a mezzogiorno in punto. L’appuntamento è laicamente sacro e preparato in modo meticoloso dagli insegnanti. Ma se il 7 gennaio il mondo è crollato addosso al popolo francese, l’8 gennaio è successo qualcosa di ancora più grave. Perché quel giorno migliaia di professori, entrando in classe, hanno per la prima volta scoperto che un numero enorme di giovani musulmani preferiva gridare «Je suis Kouachi» invece che sfilare sotto il discutibile slogan «Je suis Charlie». «I ragazzi giovedì non volevano osservare il minuto di silenzio. Alcuni gridavano Allahu Akbar, altri mi hanno detto che se avessero avuto un kalashnikov mi avrebbero ucciso subito». A questa testimonianza di Marie-Thérèse, giovane insegnante nello stesso quartiere parigino (XIX arrondissement) dal quale provenivano i terroristi islamici, se ne sono aggiunte altre dello stesso tenore, prima a decine, poi a centinaia.

I francesi si svegliano improvvisamente in un paese che non conoscevano, un paese dove vivono molte più persone che odiano la Francia di quanto chiunque potesse immaginare. La République scopre di avere un problema grande come la Tour Eiffel, ma cerca di nasconderlo e si volta dall’altra parte. Quando però centinaia di giovani si rifiutano di osservare un minuto di silenzio dopo l’attentato del 13 novembre 2015 al Bataclan, parte di un attacco coordinato più ampio nel quale morirono in tutto 130 persone, mentre la politica fatica anche solo a balbettare la parola islam, il Centro nazionale di ricerca scientifica, la più grande organizzazione di ricerca pubblica in Francia, sollecita uno studio per capire quanto è diffusa la radicalizzazione tra i giovani e perché.

Due studiosi, Olivier Galland e Anne Muxel, raccolgono la sfida e si mettono a lavorare al più spinoso dei rapporti. Mettono in piedi una squadra che intervista oltre 7.000 studenti tra i 14 e i 16 anni di ogni religione, provenienza ed estrazione sociale in 23 licei sparsi in quattro regioni francesi (Nord-Pas-de-Calais, Île-de-France, Bourgogne, Provence-Alpes-Côte d’Azur) nel periodo settembre-ottobre 2016, coinvolgendo quattro accademie (Lille, Créteil, Dijon, Aix-Marseille). Nell’aprile 2018 finiscono col pubblicare il risultato di oltre due anni di sforzi, la ricerca dal titolo: La tentazione radicale.
Dal giorno successivo alla pubblicazione, le stesse persone che si erano rifiutate di vedere quello che stava succedendo nelle scuole francesi, si scagliano contro Galland e Muxel: secondo lo studio, infatti, quasi un musulmano su due (45 per cento) non condanna del tutto gli autori dell’attentato a Charlie Hebdo, uno su quattro non stigmatizza completamente quelli del 13 novembre (24 per cento), uno su due non si è sentito interpellato dal minuto di silenzio (42 per cento) dopo l’attentato a Charlie Hebdo e uno su tre (32 per cento) da quello dopo la strage del Bataclan. Non solo: il 32 per cento dei musulmani aderisce a quello che gli studiosi chiamano “assolutismo religioso”, il 70 rifiuta alcuni precetti cardine della laicità, un terzo ritiene normale «partecipare ad azioni violente per difendere le proprie idee» e il 20 per cento ritiene legittimo «nella società di oggi» imbracciare le armi per difendere la religione.

Leggendo il lungo rapporto, si incappa spesso in risposte di questo tipo da parte di musulmani giovanissimi alle domande degli intervistatori: «Uccidere una persona è un atto grave, certo. Però, nel caso di Charlie Hebdo, bisogna anche dire la verità. Se la sono cercata. Sono morti, lo so, ma è uguale. Non va bene, però se la sono cercata. Io non li avrei uccisi, io me ne sbatto, io. Ma quello che facevano loro non bisogna farlo». Altri, appena l’1-3 per cento, risponde semplicemente alle domande con un «bravi» o gridando «Allahu Akbar». Ma si tratta di una infima minoranza. Una larga fetta di giovani musulmani la pensa però allo stesso modo: «Se la sono cercata, la religione non si può criticare, non ci si può prendere gioco della religione. Nel Corano è scritta tutta la verità esistente al mondo».
Gli autori arrivano a parlare di un «effetto islam», statisticamente correlato all’insorgere della radicalità tra i giovani. Non solo, la ricerca mostra chiaramente che non c’è alcuna correlazione tra l’adesione di un giovane a idee radicali e la sua condizione socio-economica. La favola che vorrebbe un ragazzo spinto verso il fondamentalismo dalla povertà o dall’emarginazione è smentita. Questo mix risulta insopportabile per la stragrande maggioranza degli intellettuali francesi, che hanno sempre incolpato la società per le stragi dei tanti «lupi solitari», che poi si sono sempre scoperti essere in buona compagnia. Di conseguenza gli estensori dello studio vengono bersagliati da un fuoco di fila mediatico, accusati di essere razzisti e islamofobi. Per il Le Monde si tratta di «un dossier costruito appositamente per attaccare l’islam», per Libération è «offensivo e soggettivo», per il famoso islamologo Olivier Roy si tratta di uno studio «ideologico».

Olivier Galland, che è direttore della ricerca del Cnrs e direttore della Gemass, unità di ricerca associata all’università della Sorbona, sapeva di maneggiare una patata bollente e proprio per questo ha diversificato il più possibile la platea degli intervistati: 1.753 musulmani, 1.609 cattolici e protestanti, 2.814 agnostici o senza religione e 163 aderenti ad altri credo. Ma il risultato non cambia: i musulmani sono cinque volte più assolutisti dei cristiani, per non parlare degli agnostici, e due volte più inclini a usare le armi per difendere la religione.

Professor Galland, si aspettava questi risultati?
Temevo qualcosa del genere, ma non con queste proporzioni. Vedere quanti musulmani giustificano la guerra religiosa è scioccante. La secolarizzazione non ha avuto alcun impatto su di loro.

Lo stesso non si può dire dei cristiani e dei cattolici.
I giovani che si dicono cattolici rispondono a quasi tutte le domande come gli agnostici. È difficile distinguerli. Non danno molta importanza all’educazione religiosa, vanno poco in chiesa, hanno credenze vaghe e un’adesione più che altro culturale alla religione.
Per ottenere la definizione di “assolutismo religioso”, avete fatto domande sul rapporto tra religione e scienza, perché?
È difficile misurare il fondamentalismo religioso e non bisogna dimenticare che intervistavamo ragazzi di 15 anni: non potevamo porre domande troppo complesse. Abbiamo perciò scelto quesiti come quello sull’origine del mondo. Abbiamo scoperto che per molti giovani musulmani il religioso domina interamente il mondo secolare. Tanti ci hanno risposto: «Il Corano contiene tutta la verità». Una risposta che avrebbero potuto dare, credo, anche i creazionisti protestanti americani, ma non i cattolici.

Ne è sicuro?
La Chiesa cattolica, per bocca delle sue più alte autorità, anche di papi ritenuti da molti conservatori, come Giovanni Paolo II o Benedetto XVI, hanno fatto una distinzione tra il dominio della scienza e quello della religione. Per i musulmani fondamentalisti la scienza moderna è già contenuta interamente nei versetti del Corano. I cattolici non hanno la stessa idea a proposito del Vangelo.

Dica la verità: volevate criticare l’islam e avete costruito un questionario su misura.
È la stessa cosa di cui ci hanno accusati in Francia, ma è una critica assurda. Il nostro è uno studio comparativo. Innanzitutto abbiamo intervistato oltre 7.000 giovani, uno degli studi più ampi mai fatti, e poi si trattava di persone di ogni credo. Le domande erano generiche, perché potessero essere comprese da cristiani, musulmani o atei. Non c’era neanche una domanda tendenziosa o trabocchetto verso l’islam. Le dirò di più.

Cosa?
Chi ci critica non sottolinea mai che le stesse domande le abbiamo poste anche a un campione rappresentativo di giovani tra i 15 e i 17 anni. Bene, anche in questo caso si sono riscontrati un 3 per cento di cristiani assolutisti e un 26 di musulmani. All’incirca lo stesso rapporto che abbiamo ottenuto intervistando i liceali.

E allora perché vi accusano?
Gliel’ho detto: solo perché i risultati dicono che un giovane musulmano su tre aderisce a una visione assolutista della religione. Ma questa è la realtà e molti in Francia non la accettano.

Come mai?
La Francia ha una storia lunga e complessa, costellata di rapporti difficili con gli immigrati. Siamo stati un paese colonizzatore, abbiamo tanti discendenti di origine magrebina, che a partire dagli anni Cinquanta sono arrivati nel nostro paese attirati dalla possibilità di una vita migliore. Probabilmente alcuni ambienti della società francese si sentono ancora in colpa per il passato e non vogliono incolpare le seconde e terze generazioni di immigrati per questa ondata di estremismo islamico, che purtroppo attrae molti giovani.

Per anni si è detto e scritto che alla base della radicalizzazione c’è la povertà e l’esclusione sociale. Voi invece dimostrate che il fattore socio-economico non c’entra nulla.
È uno dei risultati forti della nostra ricerca, ma non siamo certo i primi a dirlo. Non c’è alcuna correlazione statistica tra adesione a idee radicali in materia religiosa e status socio-economico della famiglia o risultati scolastici o prospettive di inserimento nel mondo del lavoro. Voglio sottolineare che non sto parlando del passaggio all’atto terroristico, processo nel quale rientrano molti altri fattori, ma solo di adesione a idee radicali. Il fenomeno della radicalità religiosa legata all’islam è culturale-ideologico, non socio-economico.
Perché i giornali francesi sono rimasti così irritati da questo dato?
È un problema tutto interno al nostro paese. La nostra sociologia si basa ancora fortemente sul determinismo e sul marxismo. Si tende a pensare che il fattore fondamentale che determina l’azione è la struttura socio-economica e non le sovrastrutture culturali o ideologiche. Quando dico a un mio collega che l’ideologia gioca un ruolo primario nel comportamento individuale o collettivo mi guarda in modo strano. Ma la storia ha ampiamente dimostrato che le ideologie politiche o religiose hanno avuto un impatto enorme sul comportamento di Stati e popoli nel XX secolo.

Avete riscontrato anche una forte tendenza a tollerare la violenza tra i giovani. È un campanello d’allarme per la società francese?
Abbiamo un problema e io non ho la risposta in tasca per risolverlo, ma è sotto gli occhi di tutti che interi quartieri delle grandi città sono completamente al di fuori del controllo dello Stato. Qui li chiamiamo i «territori perduti della Repubblica». A nord di Marsiglia omicidi, furti e traffico di droga sono all’ordine del giorno, così i giovani crescono in un clima di violenza, si abituano a tollerarlo e arrivano a giustificarlo.

Com’è possibile che un giovane musulmano su due non condanni del tutto una strage come quella di Charlie Hebdo?
Sa qual è la parola più citata nelle risposte ai questionari? Rispetto. Questi ragazzi non si sentono innanzitutto francesi, ma musulmani. L’islam costituisce la parte principale della loro identità e chi la mette in discussione, come gli autori delle vignette satiriche su Maometto, è come se attaccasse loro personalmente. Prendersi gioco della religione per questi giovani è inaccettabile. Uno mi ha detto: «È come sfottere un handicappato».

La vostra ricerca non lascia spazio a molti dubbi sul rapporto tra islam, assolutismo religioso e radicalità. Perché allora tutti i giornali, dal Monde a Libération, vi hanno criticato?
In Francia abbiamo un enorme problema di negazionismo, soprattutto negli ambienti intellettuali, che da noi sono molto ascoltati e rappresentati sui giornali. La cosiddetta intellighenzia non vuole vedere il problema, vuole continuare a ignorarlo, preferisce girarsi dall’altra parte. Ma ci sono anche tanti colleghi che ci hanno fatto i complimenti.

Dove bisognerebbe intervenire?
Sicuramente in ambito educativo e scolastico. Oggi in Francia abbiamo l’idea che la scuola debba solo trasmettere conoscenze disciplinari e cognitive. Nient’altro. Ogni ruolo educativo è stato allontanato. L’educazione a scuola è formale, molto verticale, e le famiglie sono lasciate da sole ad affrontare i problemi dei loro figli. Il fatto che i professori siano rimasti sorpresi dalla reazione negativa dei musulmani al minuto di silenzio dopo le stragi terroristiche dimostra che non conoscono i loro alunni. Ma come è possibile? Stato e professori devono ripensare a fondo il ruolo della scuola. Bisogna ascoltare e parlare con questi giovani, non ignorare il problema.

Dalla vostra ricerca emerge un’immagine molto negativa del ruolo delle religioni nella società. Si va dall’assolutismo islamico alla diluizione del cristianesimo nella secolarizzazione.
Ma il problema non sono le religioni, ma la ragione. Per questo dico che bisogna ascoltare i giovani in difficoltà e parlarci. Purtroppo, come dimostra un altro risultato del nostro studio, questi ragazzi non hanno più alcuna fiducia nei media: il 67 per cento ritiene che i giornali non dicano la verità, il 44 abbraccia idee complottiste sull’11 settembre, solo il 35 per cento dei giovani ricorre ai media francesi. Non è indifferente poi che il 64 per cento dei musulmani pensi che l’attentato delle Torri gemelle sia stato organizzato dalla Cia. Il risultato è che ognuno si costruisce la propria verità individuale su internet, dove si trova di tutto. Il lavoro da fare è grande, ma finché negheremo che esiste un problema, non potremo risolverlo. A cominciare dal mio settore.

La sociologia?
Sì. Io non dico che non ci sia discriminazione verso molti ragazzi musulmani. Ma per la paura di stigmatizzare, la sociologia sceglie di chiudere gli occhi. Non possiamo sempre considerare queste persone delle vittime. Sono attori sociali come gli altri. Una sociologia che si basa esclusivamente sull’analisi delle discriminazioni diventa ideologica.

Foto Ansa

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