Tentar (un giudizio) non nuoce

Fine vita in Regione Lombardia. Perché dico no

Di Raffaele Cattaneo
10 Febbraio 2024
Sono fortemente contrario a questa proposta di legge avanzata dai radicali. Il dolore, il dramma, le fragilità, chiedono sempre ascolto, accoglienza, accompagnamento.
Palazzo della Regione Lombardia

Palazzo della Regione LombardiaLa Proposta di legge per l’aiuto medico alla morte volontaria, il cosiddetto suicidio assistito, è arrivata anche in Lombardia. Depositata dall’Associazione Luca Coscioni per mano del suo Tesoriere e portavoce Marco Cappato, lo scorso 18 gennaio come proposta di iniziativa popolare, è stata ritenuta ammissibile nei giorni scorsi dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale e dunque passerà ora all’esame e al voto della Commissione Consiliare e poi eventualmente dell’Aula.

Credo sia opportuno fare qualche considerazione politica e provare a tentare un giudizio su questa proposta di legge che è stata depositata in ben 11 regioni ed è già arrivata in discussione nel Consiglio del Veneto dove, posta ai voti, non ha raggiunto la maggioranza.

Non è una soluzione ragionevole

Dico subito che sono fortemente contrario a questa proposta di legge per una ragione di valore e di cultura. Io desidero uno Stato – e ancor più una Regione Lombardia – che, in linea con la sua storia e visione, voglia sostenere la vita, non favorire la morte! La legge contribuisce a creare una mentalità e oggi, come ha detto l’ex presidente della Camera Luciano Violante (uomo di sinistra da sempre): «La morte si presenta come ragionevole alternativa alla vita anche fuori dai casi di gravi intollerabili patologie».

Questa mentalità sta già generando nell’opinione pubblica l’idea che la morte assistita e fornita dallo Stato possa essere una soluzione ragionevole a tanti problemi. Violante cita ad esempio il fatto che in Canada già oggi oltre un quarto della popolazione è favorevole al suicidio assistito per i poveri o i senza dimora. Non sono esagerazioni: in Olanda, dove l’eutanasia è legale da tempo, i casi negli ultimi 20 anni sono quintuplicati, superando i 10.000 all’anno.

La “dolce morte” come soluzione fornita dalle autorità per superare i problemi e le difficoltà della vita mi terrorizza! Chi stabilirà il confine? E quando sarà conveniente fissare un limite alla vita per supposte ragioni di interesse generale, ad esempio per rendere sostenibili i costi della sanità, quale autorità potremo opporre se abbiamo sfondato il confine morale della vita come bene sacro e inviolabile?

Strumentalizzazione politica

Ma entriamo nel merito anche della questione politica e legislativa.

La prima considerazione che voglio fare è quella che, come nella tradizione dell’associazione Luca Coscioni e prima ancora del partito Radicale, si tenta sempre di gestire questi temi, molto delicati, con una spallata, una forzatura, una provocazione che forzi la mano. Questo, a mio parere, non è certo il modo più adatto per affrontare un dibattito così sensibile e pieno di valenze etiche che toccano trasversalmente tutti i partiti politici.

Purtroppo, anche in Lombardia questo argomento è stato utilizzato in chiave politica, con una chiara tendenza alla strumentalizzazione, da parte dei partiti di opposizione, che ne fanno una bandiera da sventolare, tanto che alla conferenza di Cappato erano presenti e sono intervenuti consiglieri regionali di tutti i gruppi di opposizione.

Cure palliative

La seconda considerazione è che questa proposta di legge parte da un assunto, per altro discutibile, che il riconoscimento al diritto al suicidio assistito sarebbe già avvenuto in forza del dettato della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale. In base a questo assunto, ora si tratterebbe solo di disciplinare i tempi con cui il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe procedere.

Anche su questo, secondo me, c’è molto da discutere, a partire dal fatto che il compito del Servizio Sanitario è quello di curare. Qui si protrae da anni, nella cultura e nella comunicazione, un grave errore semantico: anche quando non esistono più terapie attive tese a debellare la malattia, sussiste sempre la possibilità di curare la persona. Questo è il grande tabù delle cure palliative che nel nostro Paese sono pressoché sconosciute se non agli addetti ai lavori. È bene sottolineare allora che «le cure palliative iniziano nel momento in cui si comprende che ogni malato ha la sua storia personale, specifiche relazioni e cultura che merita rispetto poiché individuo unico. Il rispetto include l’erogazione delle migliori cure sanitarie disponibili e la possibilità di utilizzare tutte le scoperte degli ultimi anni, in modo che ogni malato sia in grado di impiegare al meglio la propria vita».

«Vivere sino alla morte»

Queste parole, pronunciate da Dame Cicely Saunders, costituiscono la pietra angolare del concetto moderno di Hospice. La donna nata a Londra nel 1918 e convertitasi al cristianesimo nel 1945, negli anni ’50 ha iniziato a occuparsi delle problematiche riguardanti i malati terminali. Infermiera, assistente sociale e poi medico, deve la sua intuizione all’incontro con due pazienti che nella fase finale della loro vita le hanno fornito esempio e sprono per approfondire conoscenze e metodi di lavoro. Dall’osservazione del vissuto concreto di questi due uomini Dame Cicely si rese conto che la medicina stava dimenticando i morenti. Sino a quel momento l’unica “terapia” offerta consisteva in forme di assistenza caritatevole, prive di alcuna base scientifica e riconoscimento da parte della medicina ufficiale. Nel 1961 la donna inglese costituì la fondazione del St. Christopher dove sei anni dopo ha fatto ingresso il primo paziente. Tutti gli Hospice che seguiranno, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo, s’ispireranno proprio alla filosofia da lei coniata: «Vivere sino alla morte».

Lo diceva già Alessandro Manzoni nell’Adelchi: «Quella via, | Su cui ci pose il ciel, correrla intera | Convien, qual ch’ella sia, fino all’estremo».

Un vero dibattito

La persona è sempre molto di più di un organismo che biologicamente è giunto al suo epilogo. Dunque, oggi il paziente che invoca la morte, è realmente nelle condizioni psicologiche di voler porre fine alla sua vita, oppure quel grido straziante è la richiesta implicita di trovare un senso all’ esistenza che sta vivendo, seppur dentro l’impossibilità di guarire? Il dolore, il dramma, le fragilità, chiedono sempre ascolto, accoglienza, accompagnamento.

Cappato invita all’autodeterminazione, alla volontà di accompagnare le persone alla morte, ma l’uomo per sua natura non vuole morire, e per quanto ne sappiamo, possiamo accompagnare la persona inguaribile solo dentro la vita. La morte è un fatto, non un diritto. Legiferare sulla morte, è un percorso molto pericoloso, perché la legge è sempre universale, invece il dolore sempre e solo intimo e particolare. Una legge sul suicidio assistito potrebbe aprire scenari impensabili, ma in ogni caso uno Stato serio dovrebbe garantire un dibattito, fuori dalle opposte ideologie, capace di cogliere il verso senso di quell’urlo che tanto ci spaventa, ma che non possiamo, per timore o cinismo, derubricare all’interno di una norma di legge.

Per questo mi auguro che ci possa essere in Consiglio Regionale un dibattito vero su questa legge, fuori degli schieramenti e delle obbedienze di partito, ma capace di interrogare le coscienze su una questione cruciale per il nostro futuro e per la visione che abbiamo della società e della convivenza civile.

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