Femministe francesi pro-Hamas
Alcune delle più autorevoli intellettuali femministe del mondo, in particolare francesi, si rifiutano di considerare femminicidio le decine di uccisioni precedute da stupro e torture di donne israeliane vittime dell’assalto di Hamas del 7 ottobre scorso, perché quello che è accaduto quel giorno va “contestualizzato” nella lotta contro lo stato coloniale israeliano.
Leggere per credere: sul sito lemediatv.fr pezzi da novanta dell’intellettualità femminista internazionale come Sam Bourcier, Elsa Dorlin, Sara Farris, Silvia Federici, Émilie Hache e Isabelle Stengers, insieme a nomi meno noti, rigettano l’appello a firma di intellettuali e personaggi dello spettacolo francesi, uomini e donne, apparso il 10 novembre su Liberation che chiedeva «il riconoscimento di un femminicidio di massa compiuto il 7 ottobre». Tale appello viene giudicato un esempio di “pinkwashing” telecomandato dalle autorità israeliane per far dimenticare le atrocità del «genocidio in corso… che non si discute, ma si combatte radicalmente».
Segue spiegazione:
«La possibilità che il termine “femminismo” venga utilizzato in un’operazione così abietta deriva anche dalla nostra debolezza nel contrastarlo, o addirittura nel prevenirlo: si tratta quindi, con urgenza, di chiudere la porta affinché tali idee diventino formulabili e udibili. L’oscena propaganda di guerra che sostiene questa piattaforma ignora consapevolmente qualsiasi contestualizzazione della situazione al fine di reificarla e, in definitiva, reiterare la visione di un mondo musulmano barbaro contro una popolazione israeliana femminilizzata e quindi ripulita e sgombrata da ogni sospetto. La condanna inequivocabile dei combattenti di Hamas è infatti legata alla costruzione di un Oriente mostruoso, necessariamente colpevole delle peggiori atrocità contro le donne, consentendo così ancora una volta di cancellare ogni prospettiva storica riguardo alla violenza intrinseca alla colonizzazione».
Un racconto che non commuove
In realtà nell’appello apparso su Liberation non c’è alcun riferimento all’identità etnica o religiosa dei massacratori del 7 ottobre, ma l’enunciazione di alcuni fatti ormai dimostrati:
«Molti civili sono morti, ma le donne non sono state uccise allo stesso modo degli altri. La violenza commessa contro queste donne corrisponde in tutto e per tutto alla definizione di femminicidio, cioè all’omicidio di donne o ragazze a causa del loro sesso. Alcune donne sono state esposte nude. Alcune donne sono state violentate al punto da fratturare loro il bacino. Anche i loro cadaveri sono stati violentati. I loro genitali sono stati sfigurati. Si è urinato sui loro resti. (…) Alcuni video degli interrogatori dei terroristi lo confermano: “Volevamo violentarle per umiliarle”. È stata anche fatta una cernita delle donne da prendere in ostaggio, quelle belle da una parte furono portate via, le altre uccise».
Questo racconto non commuove per nulla le filosofe femministe, sia perché si danno casi, a loro conoscenza, di donne palestinesi violentate dai servizi di sicurezza israeliani, sia perché in qualche modo le donne israeliane se la sono cercata. Testuale:
«Non dimentichiamo, da parte nostra, i cittadini e le cittadine israeliani/e che prestano servizio volontariamente nell’esercito e che, uomini e donne, trattengono con la forza la popolazione palestinese ai posti di blocco, lanciano bombe al fosforo sulla popolazione di Gaza, brutalizzano e umiliano i/le palestinesi».
Nella foga di mettere sullo stesso piano realtà piuttosto diverse, le autrici dell’intervento su lemediatv.fr citano anche il caso di «Mariam Abu Daqqa, militante palestinese di 72 anni, arrestata con violenza in piena notte da quattro poliziotti francesi prima di essere brutalmente espulsa». La Daqqa è un’attivista del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), organizzazione classificata ufficialmente come terroristica dall’Unione Europea, e lei stessa responsabile di tredici attacchi contro civili israeliani fra il 2002 e il 2015. Il Consiglio di Stato francese, chiamato in causa a norma di legge, ha ritenuto, dopo aver esaminato il fascicolo, che la sua presenza ad una serie di conferenze all’indomani degli attacchi del 7 ottobre rischiava di creare «un disturbo dell’ordine pubblico».
Solidarietà ad Hamas
Successivamente le filosofe femministe dichiarano apertamente la loro solidarietà con i combattenti palestinesi di Hamas, la cui lotta sarebbe parte di una lotta contro il capitalismo e l’imperialismo mondiali di cui le firmatarie del testo si considerano vittime tanto quanto i palestinesi:
«Se una prospettiva “femminista” può attivarsi di fronte alla situazione nella Palestina occupata, essa non può che radicarsi in un posizionamento coinvolto e situato: è perché come madri, sorelle, figlie, compagne, amiche, attiviste, sappiamo il costo della violenza sui nostri corpi e sulle nostre menti per vivere in un mondo mutilato dal capitalismo e dall’imperialismo, che dobbiamo esprimerci sulla situazione in Palestina. (…) Ed è perché, infine, abbiamo a cuore la vita, che la nostra solidarietà va a tutto il popolo palestinese: alle sue donne e ai suoi bambini, ovviamente, ma anche ai suoi uomini, a coloro che trasportano i bambini estratti dalle macerie, a coloro che rivendicano la terra per nutrire le proprie famiglie, a coloro che con dignità continuano instancabilmente a lottare per la sopravvivenza e la libertà dei propri cari. È nelle loro lotte, nella loro disperazione e nella loro determinazione, ma soprattutto nel loro rifiuto di ogni rassegnazione, che noi, attiviste femministe, desideriamo riconoscerci».
Una triste sconfitta del femminismo
Nella newsletter di Philosophie Magazine (una delle riviste di divulgazione filosofica più importanti di Francia) Martin Legros, che si dice “costernato” dei contenuti dell’intervento apparso su lemediatv.fr, critica in profondità la contraddizione che c’è nell’affermare che i propri giudizi provengono da «un posizionamento coinvolto e situato», e poi invece basarli di fatto su concetti generali e in questo caso generici come la violenza capitalista e imperialista a livello mondiale.
Legros cita la femminista Donna Haraway, che
«aveva a suo tempo difeso nel suo Manifesto Cyborg (1984), col “prospettivismo femminista”, l’idea che a differenza degli uomini, sempre inclini in virtù della loro posizione dominante a parlare come Dio, da un punto di vista d’insieme, le donne e gli oppressi assumono una prospettiva incarnata, singolare, “meravigliosamente dettagliata”. (…) In breve, il prospettivismo femminista era concepito come un invito rivolto “a tutti a rendere condivisibile il proprio punto di vista situato e unico”. Oggi, sotto la copertura della bella astrazione che costituisce la “violenza capitalista, colonialista e imperialista”, vissuta in modo simile da tutte le donne su entrambe le sponde del Mediterraneo, non rimane nulla di questa proposizione. E il resoconto del mondo che queste filosofe femministe producono, lungi dall’essere “meravigliosamente dettagliato”, equivale ad escludere le donne israeliane vittime del 7 ottobre da ogni considerazione morale e giuridica. E fare della negazione di uno dei primi “femminicidi di massa” del 21° secolo un motivo di vanto della retorica femminista. Assumere una posizione “coinvolta” non equivale a rendere condivisibile un’esperienza, ma a decidere una volta per tutte chi sta dalla parte giusta della storia e chi ha diritto, oppure no, al rispetto. A tale titolo, il conflitto israelo-palestinese segna anche la triste sconfitta di un certo femminismo».
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