
Pubblichiamo il contributo di Diego Marchiori, presidente Vivere Salendo, al convegno dell’11 settembre 2019 tenutosi presso il tavolo “famiglia e vita” della Cei alla presenza del cardinale Gualtiero Bassetti.
La legge 219/17 entrata in vigore il 31 gennaio 2018, ribalta il campo dei doveri con quello dei diritti. Il dovere dei medici di tutelare la vita e la salute «in qualunque luogo o circostanza» viene ribaltato in favore dei diritti del paziente secondo cui si stabilisce che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge». Il “consenso informato”, le Dat, diventano il punto di incontro tra «l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico».
Tale rovesciamento di prospettiva ha aperto il varco al ribaltamento tra la cultura del favor vitae per quella del favor mortis. Puntualmente infatti sono arrivati alle cronache nazionali casi pietosi per creare quel consenso culturale necessario per aprire la strada all’accettazione dell’eutanasia, attiva e passiva, anche in Italia. Il noto caso di Fabiano Antoniani (dj Fabo) è diventato il cavallo di battaglia con cui i Radicali – su tutti il leader dell’associazione Coscioni Marco Cappato – hanno indotto la giurisprudenza italiana ad interrogarsi sulla legittimità dell’art.580 c.p. che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio.
La Corte Costituzionale, con ordinanza 16 novembre 2018, n. 207, dichiarando che «a fronte di ciò, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta. La Corte ha reputato doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale». Il termine di questa decisione sospesa è martedì 24 settembre.
Il Parlamento così tanto osannato nel suo valore democratico nelle settimane di crisi governativa, a pochi giorni dalla sentenza, non ha ancora avuto il coraggio di calendarizzare una discussione in tema. La pressione di tante associazioni, da ultimo il convegno dell’11 settembre con la presenza del presidente dei vescovi italiani, card. Bassetti, ha quantomeno acceso i riflettori e alcuni esponenti politici si sono espressi per una discussione urgente, almeno nelle commissioni competenti di Camera e Senato. L’obiettivo minimo è quello di rimandare la sentenza della Corte per dare tempo al Parlamento di discutere. Sappiamo che è mutato il contesto politico, e sappiamo che oggi è più sbilanciato verso il favor mortis. Ma risulta grave, agli occhi dei cittadini, che chi è delegato a rappresentarli nelle più alte camere, ignori la richiesta della Consulta – di ormai un anno fa – di discutere e decidere su una questione tanto delicata quanto complessa. Sarebbe auspicabile che chi è a favore della morte per eutanasia lo dichiarasse apertamente, e non permettesse, più o meno subdolamente, altre sentenze creative.
Chi è a favore dell’eutanasia, attiva e passiva, dovrebbe giustificare agli italiani anche il proprio modello di sistema socio sanitario che già oggi versa in condizioni di grave difficoltà – non foss’altro che per gli sperperi diffusi – con la carenza crescente di medici, la persistente chiusura delle facoltà che li formano, e il costante e crescente invecchiamento della popolazione. La soluzione è far morire i più deboli, gli inattivi, chi è un costo sociale per risparmiare soldi? Diciamocelo apertamente, nell’ambito istituzionale deputato: al Parlamento.
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