Referendum e legge sull’eutanasia gareggiano per uccidere. E la chiamiamo “civiltà”
Non chiamatela eutanasia, ma omicidio del consenziente: saranno queste le parole che per l’ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione dovranno apparire sulla scheda del quesito referendario. Nessun riferimento alla «sofferenza insopportabile» di cui parlano sempre Cappato e Gallo, alla salute, a un calvario personale, solo un riferimento al “consenso” di chi vuole morire.
Eppure ancora ieri i giornali soffiavano sulle braci della letale competizione tra “testo unificato” redatto dall’onorevole Bazoli in tema di eutanasia e il referendum per l’“eutanasia legale” promosso dai radicali, tornando a parlare di «suicidio non assistito alla Camera», «politici inumani», «occasione persa», «modifica (l’obiezione di coscienza, ndr) che annacqua il testo base in discussione a Montecitorio». Il tutto brandendo appunto il totem della sofferenza, il calvario della ragazza «purosangue» Eluana, della giovane Samantha, del tetraplegico Mario «boicottato dalle istituzioni», icone dolorose della società più avanti della politica, icone di un referendum da accelerare per evitare “l’effetto Zan” e rimpiazzare la «vergogna dell’Aula vuota» e di un Parlamento «disumano» con la volontà dei “cittadini firmatari”.
Eutanasia. Le ragioni del no
In altre parole ancora ieri si brigava perché a prevalere fosse l’obiettivo eutanasico con le solite perifrasi, “legge di civiltà”, “diritto a una morte dignitosa”; perifrasi che tuttavia nulla hanno a che fare con il testo sulla “morte volontaria medicalmente assistita” approdato alla Camera, tanto meno con il referendum dei radicali.
Bastava chiudere i giornali e aprire il libro Eutanasia. Le ragioni del no (Cantagalli) a cura di Alfredo Mantovano, o ascoltarne la presentazione, ieri, nella sala stampa di Montecitorio. L’ha organizzata con altri parlamentari e senatori di centrodestra Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia, per due ragioni: «Questo libro contribuisce a evitare la trappola dell’emotività e al contempo offre uno sguardo di prospettiva. Qualsiasi legge che ha a che fare con la vita, l’inizio e la fine della vita, non può schiacciarsi sul dibattito immanente e prescindere dalle conseguenze culturali che avrà sul paese».
I Paesi Bassi e gli slogan
Mantovano le ha ben delineate, coordinando un gruppo di autori che fanno capo al Centro Studi Rosario Livatino, tra di loro giuristi di varia e ampia formazione ma anche medici, palliativisti, bioeticisti, alle prese non solo con l’esame, articolo per articolo, del testo Bazoli e del quesito referendario, ma con gli effetti spietati della legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito negli stati più “progressivamente aggiornati”. Come i Paesi Bassi, al cui interno sono operative da anni disposizioni quali quelle che si vorrebbero introdurre in Italia.
Un libro asciutto, laico e scientifico, capace di restituire la drammatica complessità di un argomento che i referendari vorrebbero dirimere a colpi di sì o di no e slogan insulsi (l’accusa al testo Bazoli è di puntare a «discriminare» pazienti come quelli oncologici che non necessitano di sostegni vitali e «svuotare» la legge ammettendo l’obiezione di coscienza) e molti parlamentari risolvere superando ogni confine indicato dalla Consulta nella sentenza Cappato del 2019.
Il fine vita in mano ai giudici
Se infatti il referendum non punta all’eutanasia, ma alla non punibilità dell’omicidio del consenziente in tutti i casi, a meno che si tratti di un minore, infermo di mente o di persona tratta in inganno – ribadiamolo ancora una volta: non stiamo parlando di persone malate ma anche di sani, e di far saltare tutti paletti posti dalla legge del 2017 e ribaditi dalla sentenza 242/2019 –, il testo Bazoli «tende ad allargare in modo quasi indefinito le maglie disegnate dalla Consulta. Soprattutto arriva a ridimensionare, fino a renderle marginali, le cure palliative – ha sottolineato Isabella Rauti (Fdi) alla presentazione –. Tradotto: meno cure al malato e meno sostegno alle famiglie. Non si parla poi più di “patologie irreversibili” ma di “condizioni cliniche irreversibili”, si utilizzano perifrasi capziose come “morte volontaria” per non chiamarla eutanasia, o scorciatoia della morte offerta o determinata da un giudice. Per questo noi di Fratelli d’Italia faremo di questo libro la nostra guida». Qualora medici e comitato per la valutazione clinica non ritenessero sufficienti le condizioni di una persona per accedere alla “morte assistita” per il legislatore la palla passerà infatti al tribunale. Scontato dire con quali esiti.
Snobbate le cure palliative
E se Anna Rita Tateo (Lega) ha sottolineato l’importanza del libro a sostegno dei lavori parlamentari ancor più «in assenza di un relatore del centrodestra per cui molto ci si era battuti in Commissione» (i relatori individuati sono appunto Alfredo Bazoli del Pd e Nicola Provenza del M5s), Fabiola Bologna (Coraggio Italia) ne fa proprie le tesi «da parlamentare e da medico neurologo che per tanti anni mi sono curata di casi gravi gravissimi, della relazione medico paziente e con la famiglia. Sostenere oggi il valore di la vita è necessario per proteggere chi, versando in una condizione di debolezza fisica, psicologica, ma anche sociale ed economica, potrebbe convincersi, o essere convinto da terzi, che la sua vita possa non avere più valore». Anche Bologna ha sottolineato con forza la mancata applicazione della legge 38/2010 sulle cure palliative (il libro ne prospetta bene gli effetti in aiuto del malato e della sua famiglia) e la necessità di una informazione corretta non solo sul percorso alla Camera ma sul quesito referendario che «al di là degli slogan accattivanti liberalizza l’omicidio del consenziente, altro che eutanasia. Ma è compito nostro spiegarlo ai cittadini».
Una legge sì, ma per i caregiver
In questo senso il libro di Mantovano non rappresenta solo una operazione verità sui contenuti critici di norme e quesiti: lo ha spiegato bene Angelo Salvi, tra gli autori del libro, entrando nel vivo del dibattito mediatico, la sofferenza appunto. O meglio la possibilità, in nome della sofferenza sbandierata dai giornali e dalle campagne referendarie, di sostenere la vita e non la morte come soluzione finale. E questo significa in primis, sostenere i caregiver, «altra fondamentale faccia della medaglia delle cure palliative», poiché nessuna scelta di fine vita nasce da sé ma dal contesto, dalla sofferenza scaturita non solo dalla malattia ma dal sentirsi un peso per le persone care che se lasciare sole finiscono per “esaurirsi” nelle cure.
La competizione per dare la morte
«Vogliamo provare a dare qualche indicazione in positivo», ha aggiunto in chiusura Alfredo Mantovano, ricordando che non può avere cittadinanza la sola dialettica sulla morte come rimedio alla sofferenza dei disabili gravi, «lo sforzo deve essere quello di capire, insieme alle prospettive della deriva eutanasica, cosa si può fare realmente per le persone che si trovano in grave difficoltà. Affrontando a tutti i livelli, non solo in termini di sostegno finanziario, come si può e si deve aiutare un sofferente e chi lo affianca. Quello che sconcerta, osservando questo mix tra referendum e testo in aula, è che vi sia competizione solo in direzione della morte e non dell’aiuto a chi è in difficoltà. Lo aveva previsto quindici anni fa il pioniere dell’oncologia in Francia, Lucien Israel, parlando di eutanasia come soluzione tutto sommato facile e a buon mercato in un contesto di ormai quattro generazioni, l’ultima che guarda con preoccupazione l’avanzare dell’età della prima. Basterebbe innanzitutto iniziare a chiamare le cose col proprio nome: non referendum per “l’eutanasia legale”, ma appunto “abrogazione della norma sull’omicidio del consenziente”. Non testo sulla “morte volontaria medicalmente assistita” ma testo sull’eutanasia». E una volta chiariti i termini andare a vedere cosa è successo dove l’agenda dei sogni degli alfieri dell’eutanasia si è avverata.
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