È morto don Francesco Ventorino. “Posso darvi la cosa più cara che posseggo: la speranza cristiana”

Di Francesco Ventorino
17 Agosto 2015
Per tutti "don Ciccio", fu fedele seguace di don Giussani e riferimento della comunità di Cl in Sicilia. Qui la sua omelia durante la festa per i suoi sessant'anni, che volle festeggiare in carcere assieme ai detenuti.

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È morto oggi dopo una lunga malattia don Francesco Ventorino, filosofo, teologo, saggista e (dall’agosto 2013) cappellano nel carcere di Piazza Lanza a Catania. Don Ventorino, classe 1932, sacerdote e professore molto conosciuto a Catania, per tutti “don Ciccio”, fu fedele seguace di don Luigi Giussani e riferimento e fautore della comunità di Comunione e Liberazione in Sicilia. Qui di seguito pubblichiamo la sua omelia durante la festa per i suoi sessant’anni di sacerdozio, che volle festeggiare in carcere assieme ai detenuti. Le esequie saranno celebrate mercoledì 19 agosto 2015, alle ore 16.30, nel Duomo di Catania.

Non avrei mai pensato fino all’anno scorso di poter celebrare i miei sessant’anni di sacerdozio in un modo e in un luogo più bello di questo, dove la sofferenza della detenzione carceraria si coniuga con il rispetto per la dignità di ogni persona e per la cura che altre sofferenze non abbiano ad aggiungersi a quella pur grande della privazione della libertà.

Questo è un luogo dove l’umanità dolorante dei detenuti si incontra con l’umanità generosa di quelli che si prendono cura di loro. Dalla Direzione alla Polizia Penitenziaria, dagli educatori ai volontari, tutto concorre a rendere il tempo della pena più sopportabile e più utile possibile.

Il gesto di questa sera ne è dimostrazione evidente perché, prima di essere un momento di festa per me, è un momento di sollievo e direi quasi di vita normale per i detenuti. Uno spettacolo all’aperto in una serata d’estate. Grazie al Direttore e al Comandante che, interpretando un mio desiderio, l’hanno reso possibile. Grazie a tutti coloro che l’hanno preparato. Un grazie particolare al preside Pennisi che ha curato questa rappresentazione teatrale con la competenza e la passione umana che le sono proprie. Anche il momento che seguirà, il rinfresco con le torte e i dolci è stato preparato con cura da tante mamme che dall’esterno hanno voluto così manifestare la loro solidarietà cristiana.

Parlo di solidarietà cristiana perché solo con il cristianesimo è entrata nel mondo questa concezione dell’uomo come figlio di Dio, la cui grandezza non viene meno mai neanche a causa del più ignobile delitto. Nell’uomo che sconta la sua pena c’è il Figlio di Dio che soffre. Gesù disse che visitare un carcerato sarebbe stato come visitare Lui e come tale questo gesto sarebbe stato ricompensato.

Cari detenuti vi ringrazio della cordialità con cui mi avete accolto e mi accogliete ogni giorno quando vengo a visitarvi nelle vostre celle. Vi ringrazio della vostra amicizia sincera e della vostra lealtà. C’è come un patto fra di noi di leale e gratuita corrispondenza che si è manifestato in tante circostanze.

Spero che questo rapporto amicale presto si possa allargare ai detenuti stranieri. Che siano anch’essi sempre più integrati e rispettati nella loro identità culturale e religiosa e possano ammessi con pari dignità alle attività lavorative e formative che questa Casa offre, con una specifica attenzione alla loro lingua e alle loro capacità.

Un pensiero non può non andare questa sera alle vostre famiglie, di cui certamente sentirete la mancanza. Forse di queste mi sono occupato finora troppo poco. Sappiate che potete contare sul mio aiuto fino al limite delle mie possibilità per venire incontro ai loro bisogni.

Infine lasciatemi ringraziare gli agenti della Polizia Penitenziaria che operano in questa Casa Circondariale. Con loro si è stabilita ormai una intesa profonda, una simpatia corrisposta, una familiarità personale. Incontrarli ogni giorno diventa per me come una festa dell’amicizia. Basta uno sguardo per dirsi tante cose e poche parole per confidarsi tanti problemi personali e familiari. Anche a voi dico che potete contare su di me, su quello che posso. Purtroppo non ho molto potere, ma anche a voi posso dare la cosa più cara che posseggo, cioè la speranza cristiana.

A tutti dico, come disse san Pietro ad un paralitico: “non posseggo né oro né argento, ma in nome di Cristo Signore alzati e cammina”. Non farti vincere dalla tristezza e dalla paura, dalla stanchezza e dalla disperazione. Il Signore è grande ed è padre che comprende e perdona, mette alla prova ma dà la forza di sopportarla e soprattutto mette nel cuore di ciascuno di noi il desiderio di carità che porta ad alleviarla negli altri. Quante scene di solidarietà ho visto tra i detenuti! Veramente Dio è grande ed è presente anche qui, nella Casa Circondariale di Piazza Lanza. Ne è valsa la pena dargli sessant’anni della mia vita.

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1 commento

  1. Andrea

    Grande amico!

    Da Tempi 7/2012

    Nel mio libro si narra la storia di un rapporto con lui nel quale fin dal primo momento c’è stata da un canto da parte mia la tentazione di “oggettivare” il suo metodo per gestirmelo poi “in proprio” e nello stesso tempo l’evidenza che questo metodo io l’avrei imparato soltanto dentro una sequela perenne nei confronti della sua persona. «Non un criterio da apprendere – avrei detto in seguito, riscuotendo tutta la sua approvazione – ma uno sguardo che non si finisce mai di imparare». È per questo che il mio rapporto con don Giussani è stato sempre caratterizzato da una drammatica tensione, di “resistenza e resa” che si sono alternate fino alla fine, fino alla resa finale.

    Da questa “natura personale” del metodo cristiano, che lui era e che lui proponeva, deriva che esso non può essere tramandato se non attraverso la testimonianza di coloro che hanno vissuto con lui e che in qualche modo da questa familiarità sono stati segnati e recano nella loro carne i segni di una figliolanza che consiste nel portare in se stessi la stessa forza persuasiva del cristianesimo che era propria della sua umanità.

    Il carisma – ripeteva spesso don Giussani – costituisce il nostro volto, il volto cristiano di ciascuno di noi, l’accento umano che ha preso il cristianesimo in ciascuno di noi e che in qualche modo costituisce la nostra personalità. Al carisma si possono applicare per analogia le parole di Hans Hermann Groër, che don Giussani ha fatto proprie: «Non esiste il cristianesimo, esistono solo persone che hanno incontrato Cristo» (L’attrattiva Gesù, Rizzoli, p. 8).

    In questo senso il carisma è una “storia”, fatta da uomini che hanno affrontato la vita sociale ed ecclesiale con un gusto, un accento cristiano, che li ha resi originali protagonisti del loro tempo. La memoria di questa storia – lungi dall’essere un rifugio nostalgico nel passato – è condizione essenziale perché essa si ripeta originalmente nel presente e la fedeltà al carisma non si riduca, a lungo andare, ad un noioso citazionismo dei testi di Giussani o a una stucchevole analisi introspettiva, che ci si ostina a chiamare “esperienza”.

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