Più verità, meno realpolitik. La diplomazia secondo Benedetto XVI
Pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Matteo Matzuzzi, Il santo realismo – Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco (Luiss University Press, 157 pagine, 16 euro). L’autore è vaticanista del Foglio quotidiano.
Guardando al modo di concepire le relazioni della Santa Sede durante gli otto anni di pontificato ratzingeriano, è stato detto che Benedetto XVI ha perseguito una “diplomazia della verità”. Il che non significa sposare né il realismo né l’idealismo, ma di certo il tatticismo “prudenziale” non ha segnato il lavoro della segreteria di Stato guidata da Tarcisio Bertone. Benedetto XVI non si fece troppi problemi a incontrare a Castel Gandolfo la scrittrice Oriana Fallaci, che aveva ferocemente attaccato l’islam all’indomani dell’attacco al World Trade Center, nonostante ciò potesse arrecare un danno al dialogo con la fluida realtà islamica, né a battezzare durante la Veglia di Pasqua del 2008 in San Pietro il giornalista Magdi Allam, convertito dall’islam e da tempo critico della degenerazione violenta della sua religione d’origine.
Ecco il punto che sconvolse quanti, all’interno della Curia e non solo, si illudevano che posizioni sempre più semplicistiche fossero sostenibili: il Papa sapeva bene che senza una chiara presa di coscienza dei problemi interni all’islam ogni forma di dialogo sarebbe stata superficiale, utile solo per qualche photo opportunity. Bisognava invece andare al cuore del problema: la religione islamica andava spronata a fare ciò che il cristianesimo aveva fatto negli ultimi due secoli abbondanti. Il grande gesuita arabo Samir Khalil Samir, che fu consigliere proprio di Benedetto XVI, lo ripeteva sempre, serve una rivoluzione interna all’islam. (…)
Proprio questa linea di estrema chiarezza, che può essere considerata rientrante appieno nella cosiddetta “diplomazia della verità”, fece sì che altri momenti di tensione e di scontro sorgessero a intervalli regolari. Il più grave accadde all’inizio del 2011, quattro anni e mezzo dopo Ratisbona. Il nuovo anno si aprì nel sangue ad Alessandria d’Egitto: un’autobomba esplose davanti a una chiesa stracolma di fedeli lì convenuti per la messa di mezzanotte. I morti furono decine. Il governo del Cairo parlò subito di un attentatore suicida e l’allora presidente Hosni Mubarak si presentò in televisione per affermare che «i terroristi non destabilizzeranno l’Egitto e non divideranno cristiani e musulmani». Il 2 gennaio, al termine dell’Angelus, Benedetto XVI commentò l’accaduto: «Ieri mattina abbiamo appreso con dolore la notizia del grave attentato contro la comunità cristiana copta compiuto a Alessandria d’Egitto. Questo vile gesto di morte, come quello di mettere bombe ora anche vicino alle case dei cristiani in Iraq per costringerli ad andarsene, offende Dio e l’umanità intera, che proprio ieri ha pregato per la pace e ha iniziato con speranza un nuovo anno. Davanti a questa strategia di violenze che ha di mira i cristiani, e ha conseguenze su tutta la popolazione, prego per le vittime e i familiari, e incoraggio le comunità ecclesiali a perseverare nella fede e nella testimonianza di non violenza che ci viene dal Vangelo. Penso anche ai numerosi operatori pastorali uccisi nel 2010 in varie parti del mondo: a essi va ugualmente il nostro affettuoso ricordo davanti al Signore. Rimaniamo uniti in Cristo, nostra speranza e nostra pace!».
Immediata la reazione di varie realtà musulmane. Il Grande imam di al Azhar, Ahmed al Tayyib, condannò le parole del Papa, definendole «un’inaccettabile ingerenza negli affari interni» dell’Egitto. «Non sono d’accordo con il punto di vista del Pontefice e chiedo perché il Papa non abbia chiesto la protezione dei musulmani quando erano massacrati in Iraq», aggiunse. Le rimostranze crebbero di ora in ora, tant’è che a sera dovette intervenire il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, parlando di «malintesi nella comunicazione». Insomma, nessun passo indietro. Però l’incidente diplomatico ebbe conseguenze, tant’è che da allora il dialogo con al Azhar fu congelato per essere ripreso solo una volta salito al Soglio petrino Francesco, che con al Tayyib stabilirà invece un ottimo rapporto che sfocerà nel Documento sulla Fratellanza umana siglato a Abu Dhabi nel febbraio del 2019.
Al di là dei sofismi diplomatici, Benedetto XVI vedeva ancora una volta chiaramente il problema. L’aveva già detto nel menzionato discorso al Corpo diplomatico, pochi mesi dopo l’elezione: «Nell’odierno contesto mondiale non a torto si è ravvisato il pericolo di uno scontro di civiltà. Il pericolo è reso più acuto dal terrorismo organizzato, che si estende ormai a livello planetario. Numerose e più complesse ne sono le cause, non ultime quelle ideologiche-politiche, commiste ad aberranti concezioni religiose. Il terrorismo non esita a colpire persone inermi, senza alcuna distinzione, o a porre in essere ricatti disumani, inducendo nel panico intere popolazioni, al fine di costringere i responsabili politici ad assecondare i disegni dei terroristi stessi. Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura del- la propria cecità e perversione morale».
Insomma, il Papa aveva già parlato apertamente del pericolo di uno «scontro di civiltà», e lo aveva fatto all’inizio del 2006, ben prima di Ratisbona e molto prima rispetto all’Angelus d’inizio 2011. È il segno che la linea è stata sempre una; una linea netta anche a costo di creare malumori intra e extra ecclesiali e di provocare qualche incidente sul piano internazionale. Il motivo di tale condotta non è da ricercare in personalissime posizioni intellettuali di Ratzinger o di chi lo circondava, quanto dalla certezza – e lo affermò proprio in quel discorso al Corpo diplomatico – che va coltivato «l’impegno per la verità». E la verità, aggiunse, «può essere raggiunta solo nella libertà».
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