“La pantera”, un romanzo crocevia tra bestiario e breviario
Crocevia fra bestiario e breviario, passo felpato, portamento biblico – La pantera di Davide Brullo (Industria & Letteratura, 2024) è peonia nera, selvatico arbusto fra i romanzi da vivaio, mercanzia da catasto, buona per i premi letterari. Poeta-profeta sempre diseguale a se stesso, Brullo ha già srotolato nel cantico la sua versione dei Salmi, del Libro della Sapienza e del Qoelet – mistico e arsenico.
Scrivere per contraffare il vivere, nobile affare da falsari, così pare, a cavalcare con gli occhi la sua bestia – epifania divina fra mortali, preghiera nel folto di una giungla nera. Perdersi nel nome pare imperativo assoluto – suicidio e battesimo, ossessione, arte nel martirio.
Ricorda – tutto vive / raddoppiato, tutto è primogenito, versi a chiusa di una gemellanza che diserta la morte, inganna nel doppio – quella dei fratelli Detmold, sagome reali, istoriatori delle fantasie indiane di Rudyard Kipling, coronate in pitoni e tigri reali. Nodo inscalfibile della fratellanza, abisso incestuoso – “In una famiglia si è obbligati a mangiarsi a vicenda”.
Un monaco a emendare la Bibbia, dunque a ulcerare se stesso in cicatrici da croce, come emblema e visione dell’esattezza divina – “non occorre aggiungere parole perché nella Bibbia c’è tutto”. Perché ogni opera fa male, e la scrittura, pure sacra, è sempre ‘seme velenoso’.
Virginia Woolf, Anthony Burgess, Jorge Luis Borges, E. M. Forster, Karen Blixen e T.E. Lawrence compaiono a effigiare una contronarrazione dello stare nel mondo mentendo fino alle radici, mutando la biografia in biologia, il ritorno a una natura ancestrale, preda di felini di velluto – “secondo Dante, la pantera è simbolo di Cristo, ma ciò che salva spesso uccide, tra amore e tradimento l’indifesa differenza è un bacio”.
Tratteggiare pantere e scontare peccati pare la stessa cosa – per Edward e Charles Detmold, protagonisti bifronte –, spogliarsi di un’identità è fiorire nella sparizione, prosperare nelle viscere dell’imprevisto.
Avanza per morgane, Davide Brullo, ogni pagina è visione invisa a se stessa, evapora nella tiara dell’attimo, scorta ai margini dell’abisso, converte all’ipnosi – la sua ossessione diventa cessione o rivelazione?
Opulenza della scrittura che eclissa la storia, è romanzo per lettore-falena, serale e carnale – creatura che cova un oleandro al posto del cuore.
Improvvido patto fra immanenza e provvidenza, insensibile all’eco di moderni canoni, La pantera s’affratella ad apparizioni melvilliane, ai tessuti antropici di Cormac McCarthy, è parola-cuspide che acceca il racconto da teca.
Avvezzo alle biografie apocrife, nel gioco-giogo della sua lingua sono già incappati, in precedenti opere, i profili di Vladimir Nabokov, Franz Kafka, Boris Pasternak. Brullo denuda e smaschera, dissolve il personaggio fino a dissipare l’uomo in un delirio di specchi. Unirsi con l’uomo o la bestia, a quel punto, non fa differenza.
Saturazione di un tempo nichilista a tinte pastello, La pantera si fa tempio a quattro zampe – divora nella liturgia, estende fede nell’estasi, è oasi nella stasi. L’uomo – o l’opera – abita le spire del pitone. È insieme Mowgli e Abba del deserto. Sbarre al veleno e libertà nel sibilo. Disegnare la pantera, equivale quindi a ingabbiarla o liberarla? Leggerla è l’azzardo di un azzanno.
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