Beirut – Con il ritiro dell’ultimo soldato israeliano dal Libano sud lo scorso 24 maggio, lo Stato ebraico ha messo fine a un’occupazione durata 22 anni. La mossa è stata presentata come una – tardiva – applicazione della risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza che esigeva il ritiro “immediato e senza condizioni” delle truppe israeliane dal sud del Libano e il dispiegamento dei caschi blu, la Unifil, in tutta la zona per aiutare il governo libanese a ripristinarvi la sua autorità. Ma, come si sa, i caschi blu non sono mai riusciti a svolgere appieno la loro missione, impediti dalla creazione di una “fascia di sicurezza” lungo tutto il confine israelo-libanese a protezione degli insediamenti e città dell’Alta Galilea dagli attacchi dei fedayin palestinesi. La Unifil occupava in tal modo una regione interna del Libano limitandosi a fare la contabilità dei razzi che partivano dall’una e dall’altra parte. La “fascia” si era inoltre rivelata inutile. Nel 1982, Israele si lanciò in un’operazione militare (Pace in Galilea) ancor piu’ vasta dei quella del 1978 con l’obiettivo di distruggere la struttura dell’Olp di Arafat a Beirut. L’obiettivo fu raggiunto, ma a sostituire i fedayin nel sud, arrivano presto i guerriglieri sciiti che fanno capo all’Hezbollah, il “Partito di Dio” creato e finanziato dall’Iran khomeinista.
Abbandonare il Libano significa, ora, rimescolare le carte in Medio Oriente. Gli attacchi dell’Hezbollah e di altre milizie libanesi contro le postazioni di israeliani e soldati dell’Els (Esercito del Libano sud, filo israeliano) si facevano sì in nome della “resistenza” e della liberazione dei territori libanesi occupati, ma costituivano anche un’importante carta di pressione militare della Siria nei negoziati di pace con Israele. Damasco, che controlla con 35mila soldati il resto del Libano, faceva intendere che solo l’intera restituzione delle alture del Golan, occupate nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, era in grado di garantire la cessazione degli scontri sul confine libano-israeliano. Questa “presenza” militare, come viene definita a Beirut, portava addirittura il governo libanese a rigettare ogni proposta di ritiro israeliano dal Sud, indipendente dalla sorte del Golan. In qualche maniera, le due forze d’occupazione – israeliana e siriana – si erano adeguate allo status quo, la prima motivando il suo controllo della “fascia” con la presenza di organizzazioni integraliste ostili vicino ai suoi confini, l’altra con la presenza di un esercito nemico sul territorio di un Paese fratello.
Ora la congiuntura è profondamente cambiata. La decisione del premier israeliano Ehud Barak di accelerare il suo promesso ritiro ha gettato nell’imbarazzo libanesi e siriani. Fino all’ultimo, infatti, nessuno di loro dava credito a tale prospettiva che cercavano, d’altronde, di rendere ancor più improbabile ponendo nuovi condizioni. Il presidente della Repubblica libanese, ad esempio, ha alluso all’ipotesi di un ritorno, come negli anni Settanta, delle azioni militari palestinesi, in nome del diritto dei profughi (in Libano sono mezzo milione circa) al ritorno in Palestina.
Per ora, di palestinesi nel Sud non si vede neanche l’ombra e, a controllare – per così dire – la situazione, sono i guerriglieri sciiti dell’Hezbollah o di Amal, con la presenza di altri partiti filo siriani nei villaggi a maggioranza cristiana o drusa. Una situazione che rischia, a lungo termine, di provocare una nuova vampata di violenza. Israele ha, infatti, minacciato di rispondere severamente – a ritiro completato – al minimo attacco contro i suoi soldati o cittadini e, per togliere ogni alibi di proseguimento della resistenza, ha dato la sua disponibilità ad arrivare ad un compromesso circa le fattorie di Shebaa, territorio libanese occupato insieme al Golan e il rilascio di una trentina di detenuti libanesi dalle carceri israeliane.
Tutto, insomma, porta a concludere che la prossima fase consisterà in una concentrata pressione sulla Siria volta ad arrivare ad una ripresa dei negoziati siro-israeliane. Questi ultimi erano riprese pochi mesi fa dopo una lunga interruzione durata tre anni, ma si sono nuovamente bloccati nonostante il vertice tra Clinton e Assad a Ginevra. Le premesse di tale pressione si cominciano a intravvedere tramite la moltiplicazione degli appelli a favore di una “revisione” del ruolo siriano in Libano e possono culminare – nel caso di un netto rifiuto siriano – in un colpo militare contro gli interessi di Damasco nel Paese dei cedri, ma anche nel tentativo di scuotere dall’interno lo stesso regime siriano. Lo stato di salute del presidente Assad non gli permette di tirare alla lunga le trattative, anche per permettere a suo figlio e delfino Bachar di non accedere al potere con i problemi ancora sospesi.
Cristiani in fuga, in attesa dell’Onu Per ora, Damasco si limita a sabotare come può il tentativo di separare i due “binari”, siriano e libanese, nei negoziati di pace con Israele. Piegatosi alla politica siriana, Beirut si è così rifiutato di mandare nel Sud il suo esercito, con la scusa di non voler fare da garante della sicurezza d’Israele. Con tutte le conseguenze che tale politica comporta, in primo luogo a livello locale. La popolazione della zona frontaliera, si lamenta della fuga in Israele di centinaia di famiglie a causa delle minacce proferite dai responsabili dell’Hezbollah contro i “collaborazionisti”, nonché dei continui furti e saccheggi che la presenza simbolica della polizia non riesce a bloccare. I cristiani, in particolare, risentono di questo ritardo nel ritorno delle forze dell’ordine legali, tentati di abbandonare i loro villaggi. In questa congiuntura, solo il rafforzamento e il dispiegamento dei caschi blu fino alla frontiera, secondo quanto previsto dalla risoluzione 425 del ’78, è in grado di risparmiare al Libano nuove e inutili tragedie.