«Cristina Magrini sapeva accendere il fuoco dell’amore»
Trentasette anni e quattro mesi in stato di minima coscienza: è stato un lungo «calvario» la vita di Cristina Magrini. Caduta in coma a 15 anni e morta a 53 circondata e sostenuta dall’affetto di un popolo, questa donna che non poteva muovere neanche un dito ha avuto la forza misteriosa di spostare le montagne, di infrangere il muro dell’indifferenza. Costringendo le migliori forze ecclesiali, sociali e politico-istituzionali di un’intera città, Bologna, a stringersi attorno a lei, a prendersi cura di lei, a rispondere alle sofferenza della sua famiglia e a dimostrare che questa è vita, vita vera, vita degna, vita feconda.
L’INCIDENTE E L’INIZIO DEL CALVARIO
Quel terribile 18 novembre 1981, Cristina aveva preso un bel voto a scuola. E tornando a casa, nella zona di Borgo Panigale, intravedendo la madre dall’altra parte della strada, non aveva potuto fare a meno di lanciarsi in avanti per correre ad abbracciarla. L’auto che stava passando, nonostante l’improvvisa frenata, non riuscì a evitare l’impatto.
È iniziato così il lungo calvario di Cristina e dei suoi genitori, Franca Gandolfi e Romano Magrini, che tutto hanno tentato a livello medico per aiutarla e che l’hanno accudita senza mai risparmiarsi. Neanche quando la mamma morì per un tumore nel gennaio del 1992, Romano si diede per vinto. Al contrario di tanti altri, non invocò una fine “degna” per la figlia, ma una vita degna, chiedendo in ogni modo e a voce alta l’aiuto delle istituzioni. Che, almeno all’inizio, non arrivò.
«GLI ARRESTI DOMICILIARI» DI PAPÀ ROMANO
E così papà Romano si ritrovò a far tutto da solo, a svegliarsi alle cinque del mattino per frullare sei biscotti e preparare la colazione alla figlia, che ha sempre nutrito, imboccandola, col cucchiaio e mai con il sondino; a stare con lei durante la fisioterapia, a dormirle accanto. Sempre ricordando che «io non sto facendo nessun sacrificio, nessun atto eroico perché sono contento di stare vicino alla mia bimba», ma anche ricordando che la sua vita era ormai simile «ai lavori forzati e agli arresti domiciliari».
La mia esperienza, ha dichiarato l’uomo di 86 anni al Corriere di Bologna dopo il funerale della figlia, che è stato celebrato il 13 aprile, «mi ha portato soprattutto a voler testimoniare come sono costrette a vivere le famiglie che hanno una persona in coma». In particolare, si chiedeva: che cosa succederà a Cristina se io morirò prima di lei?
QUEL “NO” A CRISTINA
Da Bologna si trasferì prima a Pioppe di Salvaro nel 1984 e poi nel 1991 a Sarzana (La Spezia), «per farle respirare il clima buono e l’aria di mare» e per approfittare dell’aiuto di alcuni volontari. Poi tornò nel capoluogo emiliano, nella speranza di trovare aiuto, invano, e fu costretto a rientrare a Sarzana. Il 6 novembre 2009, sul Corriere di Bologna uscì un durissimo articolo, intitolato “Quel no a Cristina”, dove Vittorio Monti scrisse:
«Bologna è ancora la città generosa, solidale, altruista che divenne un modello? Oppure prima la sazietà forse disperata e ora la paura molto esagerata la stringono in una morsa egoistica, segnata da un “si salvi chi può”, nel quale i deboli faranno sempre più fatica a riuscirci? Il vecchio padre, stremato dal lungo calvario, aveva sperato di riporla in un grembo protettivo. Se c’è chi si batte per il diritto di morire, era il suo pensiero, ci sarà anche chi può aiutarmi per tenere una creatura attaccata alla sua vita, visto che tanti ammoniscono sulla sua sacralità intangibile. Papà Magrini ha dovuto ammettere di essersi sbagliato e di avere perso la sua scommessa sul cuore di Bologna».
LA RISPOSTA DI BOLOGNA
La scommessa in realtà non era persa. Perché quel “no” doloroso ha scosso Bologna e nel 2012, dall’iniziativa di tante persone, è nata “Insieme per Cristina Onlus” per aiutare Romano, la figlia e le tante persone nella sua stessa condizione. Tra i fondatori della Onlus c’è anche monsignor Antonio Allori, presidente della Fondazione ecclesiastica Gesù divino operaio, che ha accolto Cristina in città presso la Villa Pallavicini. «L’abbiamo riportata a Bologna, volevamo che Romano sentisse la vicinanza di tutta la città», racconta il sacerdote a tempi.it. «Abbiamo fatto tutto il possibile per lei e anche il Comune alla fine ci ha seguiti, concedendole la cittadinanza onoraria e collaborando con noi per assicurarle cure e servizi. Grazie a questo lavoro di squadra, Cristina e la famiglia non sono stati lasciati soli».
«CRISTINA ACCENDEVA IL FUOCO DELL’AMORE»
Monsignor Allori descrive Cristina come «una ragazza assopita che, come altri hanno ricordato, era povera di tutto ma capace di accendere la fiamma dell’amore e dell’attenzione. Era povera ma aveva la rara ricchezza di sapere accendere il fuoco dell’amore. Altre persone hanno accolto e animato quell’amore».
Il sacerdote le è stato vicino per tanti anni: «Le portavo ogni settimana la comunione, sotto la specie del vino consacrato perché non poteva deglutire il pane. Era in stato di minima coscienza, è vero, ma non doveva essere esclusa da nulla. E così era nel nostro villaggio della speranza. A Villa Pallavicini tutti le volevano bene: pensi che i bambini, quando nel periodo estivo la portavamo sotto il portico per trovare un po’ di fresco, passavano sempre a darle una carezza e a salutarla prima di andare a giocare. Cristina non era un’ammalata che generava distanza, non ha mai creato barriere. E i bambini lo capivano subito».
«ROMANO NON DISSE MAI: “FACCIAMOLA MORIRE”»
Cristina ha vissuto degnamente in una condizione difficilissima soprattutto grazie all’amore e alla dedizione di papà Romano. «Era affettuoso, le frullava sempre il cibo perché voleva darle da mangiare con il cucchiaio e non con un tubo», continua monsignor Allori. «Ci metteva un’ora in questo modo a imboccarla, ma diceva sempre: “Così per me è ancora una figlia”. Cristina non ha mai avuto una sola piaga da decubito e tutte le persone in stato di minima coscienza dovrebbero essere trattate come lei. Romano è stato un padre affettuoso, aveva evidentemente momenti di stanchezza e sconforto, temeva di morire prima di lei, ma nonostante tutte le difficoltà non ha mai detto: “Facciamola morire”. Lui non giudicava gli altri, quelli che hanno scelto la morte per i familiari in momenti duri, ma diceva: “Io non posso accettarlo”».
Papà Romano ha passato momenti drammatici, ma «è stato sempre sostenuto: prima dalla moglie, finché è stata in vita, e poi dall’alleanza di persone e istituzioni che hanno cominciato ad aiutarlo. Per quanto possibile l’ha sempre tenuta in casa e su questo era irremovibile. Romano ha vinto la sua battaglia di speranza e di cura grazie al gioco di squadra di tutti: è questa la vera attenzione che bisogna avere verso tutte le persone deboli come Cristina. La sua, quindi, è una grande storia di speranza e di amore».
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