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Miserere, storie di cristiani perseguitati. «Padre ci aiuti, i ribelli Seleka si prendono tutto. Anche i figli»

Così i miliziani islamisti arrivati in Centrafrica dal Ciad e dal Sudan per combattere Boizizé razziano i villaggi uccidendo e depredando chiese e conventi

Franco Molon
09/10/2013 - 3:30
Società
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Pubblichiamo la tredicesima puntata di “Miserere”, la serie realizzata da Franco Molon e dedicata ai cristiani perseguitati. Dopo i racconti di Megapura, Homs, Asomatos, Regno Unito, Seekaew, Trabzon, Roggwill, Sawa, Jilib, Hå, Con Cuông, Bulakipur, una vicenda accaduta a Kemo, Centrafrica.

Padre Benoît arriva a Kemo quando è quasi mezzogiorno. Il villaggio sembra deserto. I ribelli della Seleka hanno seminato una scia di terrore lunga quasi cento chilometri. Da Bozoum, passando per Voudou, Bossa e Bodalo, fino a lì la scena è sempre la stessa: capanne abbandonate, razziate e bruciate; contadini nascosti nella boscaglia. L’inventario dei danni subiti dalla diocesi è sempre più scoraggiante. Due chiese sono state distrutte e profanate così come le annesse case parrocchiali, il convento delle suore della Carità è stato razziato, due auto rubate, tutte le capanne usate dai catechisti nei villaggi sono state bruciate.

Il sacerdote e il suo autista scendono dalla jeep e si guardano intorno alla ricerca di un segnale di vita perlustrando le capanne, metà delle quali è intatta. Dopo qualche minuto una cinquantina di persone si materializza dal nulla; hanno riconosciuto padre Benoît e sono usciti dai loro nascondigli stringendosi dietro agli anziani. Il più vecchio parla per tutti:

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«Ci aiuti padre! I ribelli si sono accampanti appena oltre il fiume e ogni giorno tornano qui per rubarci il mais, le capre e qualsiasi cosa si possa mangiare. Se non diamo loro quello che vogliono prendono a caso due o tre di noi e li picchiano fino a che non consegniamo del cibo. Ieri sono venuti ancora, ma non era rimasto più niente e allora hanno bruciato i tetti di paglia delle capanne. Hanno risparmiato solo le abitazioni delle famiglie musulmane. Poi si sono portati via tre ragazzi come ostaggi. La prego, ci aiuti».

Quindici anni d’Africa non sono riusciti ad abituare Benoît al grido che invoca la sua responsabilità e così rassicura e promette contro la logica del buon senso. Richiama l’autista e si dirige alla chiatta che scavalla il fiume. Un chilometro dopo il traghettamento il posto di blocco dei ribelli ferma la jeep. Un miliziano con il turbante nero e la mimetica da arlecchino si avvicina al finestrino con il mitra puntato. «Dove andate?», chiede in lingua songo dalla pronuncia incerta.

«Portaci dal tuo capo», risponde il prete. Il soldato allora si siede sul cofano e fa liberare la strada con gesti imperiosi, poi fa cenno all’autista di seguire le sue indicazioni e si dispone a godersi il tragitto poggiando i piedi sul paraurti anteriore.

Il capo, che si fa chiamare colonnello, li riceve stravaccato su una sedia dantesca che il sacerdote riconosce come parte dell’arredo di una delle chiese derubate. Il militare calza un basco rosso da paracadutista e occhiali da sole a goccia; parla solo arabo, come tutti gli infiltrati dal Ciad, e si fa tradurre dal soldato che ha accompagnato Benoît.

Il prete chiede conto con fermezza delle violenze e delle ruberie. Il colonnello non si scompone e dichiara con sarcasmo di non sapere nulla di villaggi bruciati o di contadini angariati. La sedia è il dono di un suo ammiratore. Le provviste di cibo di cui dispongono sono abbondanti e giungono regolarmente dal comando Seleka, non vi è quindi motivo di taglieggiare i villaggi; al contrario sono stati proprio loro, i ribelli, a donare alcune derrate agli abitanti di Kemo, affamati dal dittatore Boizizé. A ogni frase il soldato si guarda intorno ridacchiando e aspettando il consenso della marmaglia che lo circonda e lo applaude tra gli sghignazzi.

Padre Benoît insiste ma il comandante sembra cambiare umore e divertirsi di meno. Il sacerdote preferisce ripiegare sul tentativo di liberazione dei tre ragazzi.

«Quali ostaggi?», dice il colonnello. «Sono solo dei giovani patrioti che hanno deciso di unirsi alla causa della rivoluzione. I ragazzi sono qui di loro spontanea volontà. Non è così?», domanda poi al suo secondo che, per segnalare il proprio rango, si è messo una stola verde di traverso come un diacono. Il vicecomandate annuisce rispettoso.

«In ogni caso i ragazzi vengono via con me», afferma con decisione il padre.

«Sono liberi», dichiara il colonnello, accompagnando le parole con un gesto.

I tre, poco più che bambini, si staccano allora dal fianco dell’ufficiale in seconda e si avvicinano timorosi al prete e al suo accompagnatore. Benoît tiene fisso lo sguardo sugli occhiali da sole del capo mentre fa salire sulla jeep gli ostaggi. L’autista prende il suo posto e accende il motore. A quel punto anche Benoît indietreggia e sale sul veicolo. Mentre sta chiudendo lo sportello sente il comandante dire: «Ci vediamo domani, ragazzi».

Luglio-agosto 2013 – Quattro diocesi (Alindao, Bangassou, Bossangoa, Kaga-Bandoro) della Repubblica Centroafricana sono state sistematicamente assalite e derubate da parte di un gruppo di islamisti radicali della coalizione Séléka, provenienti da Ciad e Sudan. I ribelli hanno rubato le auto, per trasformarle in piccoli blindati, e qualsiasi bene si potesse rivendere. Sono state distrutte due chiese e il convento delle Sœurs de la Charité a Bohong. A guidare i ribelli verso gli obiettivi sono stati, quasi sempre, giovani musulmani residenti sul posto. Circa quattrocento civili sono stati uccisi durante queste razzie. 

Nel video, una colonna di ribelli della Seleka in marcia verso Sibut, documentata con occhio compiacente.

@molonfranco

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