Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro non sono affatto salvi. E l’Europa che fa? Chiede tagli

Di Matteo Rigamonti
09 Luglio 2013
L'austerity non ha funzionato, e Bruxelles chiede rigore aggiuntivo a chi finora l'ha applicato senza raccogliere frutti. Intanto in Germania Angela Merkel si prepara al voto di settembre

I paesi dell’euro in difficoltà hanno ancora bisogno di aiuto: Grecia, Portogallo, Cipro e Irlanda sono, infatti, lontani dal vedere un benché minimo segnale di ripresa. L’Unione Europea dal canto suo è pronta a elargire loro ulteriore liquidità, purché proseguano sulla strada dell’austerity finora perseguita. Ammesso che questa sia la soluzione migliore; anche perché, almeno fino ad ora, i piani di salvataggio e rigore “made in Ue” non sembrano avere prodotto i frutti desiderati, ossia il risanamento delle economie in crisi.

NUOVI TAGLI IN GRECIA. Ora è certo: l’ultima tranche di aiuti alla Grecia – che finora ha già ricevuto poco meno di 250 miliardi di euro – potrà essere erogata in due fasi. L’ha detto il ministro delle Finanze olandese nonché presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, dopo che nella mattinata di lunedì l’accordo con la Troika (Unione Europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea) è stato raggiunto. E se è vero che, spiega la Troika in una nota, le autorità greche si sono finora «impegnate ad adottare misure correttive per assicurare il raggiungimento dei target fiscali 2013-2014 e realizzare un equilibrio del bilancio primario quest’anno», tuttavia «in alcune aree la realizzazione delle politiche rimane in ritardo». In particolare, secondo la Troika, le autorità devono proseguire l’impegno «a portare avanti il processo di riforma della pubblica amministrazione». Che tradotto significa ulteriori tagli e riorganizzazione del settore pubblico analogamente a quanto avvenuto con la televisione di Stato Ert. Con le conseguenze sociali che tutto questo potrebbe comportare.

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ESSERE I “PRIMI DELLA CLASSE” NON SERVE. Non se la passa tanto meglio il Portogallo, che il quotidiano spagnolo El País ha definito senza troppi giri di parole «lo studente più diligente» della Troika. Il governo conservatore di Lisbona, infatti, «pur avendo approvato tutte le riforme e i tagli sollecitati, ancora non vede la luce in fondo al tunnel». E la Troika gli ha persino dato più tempo per rientrare con il deficit sotto il 3 per cento. Ma non è servito. Motivo per cui aumentano sempre più i “rumors” secondo cui al Portogallo sarà concessa ancora maggiore flessibilità, anche per quanto riguarda il peso del debito sul Pil, che ha già superato il 120 per cento. Il Wall Street Journal ricorda, infatti, che Lisbona – che già ha ricevuto aiuti per 78 miliardi di euro – quest’anno necessiterà di 14 miliardi di euro solo per ripagare gli interessi sul debito e di altri 15 miliardi nel 2014. E l’instabilità politica, aggiunge il quotidiano newyorkese, potrebbe sfociare in una crisi e portare a nuove elezioni, rendendo assai più complicato finanziarsi sui mercati.

GLI ALTRI CHE FANNO? Anche Cipro, che ha già ricevuto 10 miliardi di euro dalla Troika, e l’Irlanda potrebbero presto avere bisogno di aiuti più consistenti. Così non sembrerebbe essere, invece, per Spagna e Italia. Mentre, tutta Europa guarda con sempre crescente attesa alle elezioni tedesche di settembre, per vedere come deciderà di muoversi la cancelliera uscente Angela Merkel.

@rigaz1

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10 commenti

  1. Quercia

    La butto là senza aver piena coscienza della complessità di questi problemi..

    Partendo dal presupposto che il problema centrale è che i cittadini europei non hanno più soldi da spendere, gli stati sono indebitati fino all’osso e l’unione europea nel suo complesso è il primo paese a livello di pil, col maggior potenziale di spesa e la maggior numero di consumatori.
    La domanda è: perchè non imporre l’autarchia europea? ossia in europa possono essere commercializzati solo prodotti fabbricati in europa.
    Quindi, la grande multinazionale extraUe vuole vendere i suoi prodotti dal portogallo alla romania, da lampedusa a caponord? bene, quel preciso prodotto deve essere fabbricato in un paese europeo. E non che si limitino a stabilire la loro sede in Irlanda e poi producono in qualche sobborgo cinese. Non vorrei sbagliarmi, ma questa “strategia” di obbligare a produrre in loco mi pare sia adottata per esempio dal Brasile per permettere ai non brasiliani di commercializzare in quel paese.
    Se si ragionasse così, l’europa avrebbe un “potere contrattuale” infinitamente superiore rispetto al Brasile. Potrebbe parlare alla pari (se non a livello superiore) con chiunque (Usa, Cina e chiunque altro).

    1. prova a dirlo al nostro personale politico, fra il quale, in specie, uno viaggia su una AUDI lunga 7 metri, e a casa del quale si vedono affluire cortei di BMW…

      1. Quercia

        ne so ancora meno sulla struttura societaria della Bmw, ma credo sia tedesca e se si facesse il mio discorso, potrebbe tranquillamente vendere in tutta europa.

        1. hai ragione, è tedesca, quindi europea…. non ti avevo risposto in modo pertinente… intendevo dire che, fosse per tanti politici di casa nostra, la FIAT potrebbe chiudere, perché le macchine FIAT a loro non piacciono…evidentemente non hanno una grande stima della nostra grande industria…

    2. Stefano Tranche

      Esattamente. e’ proprio cosi’ Quercia. Questa globalizzazione selvaggia che arricchisce pochi e impoverisce molti deve essere fortemente modificata. Anche io sono arrivato alla tua stessa conclusione. Ricominciamo a produrre in Europa e la crisi sparisce immediatamente. Autarchia o protezionismo o roba del genere…ma chi l’ha detto che non possiamo piu’ costruire in Europa? Il nostro mercato e’ grosso. Facciamoci le cose da noi. Infatti che senso ha risparmiare 10 cents e spostare la produzione in Cina se poi qua rimaniamo senza lavoro e non abbiamo neanche piu’ i soldi per comprare il latte? Tanto vale spendere un po’ di piu’ ma stare tutti un po’ meglio giusto?

      1. ragnar

        Il cittadino forse preferirá spendere 10 cents in piú lasciando la produzione in Europa, ma l’imprenditore sicuramente preferirá trasferire la produzione in Cina pur di risparmiare qualcosa. Non é questione di 10 cents. É questione che in Cina tu non devi avere a che fare con sindacati, tasse e quant’altro: lí se dici che si lavora dale 8 alle 20 per 10 euro al giorno e niente permessi malattia, si lavora dale 8 alle 20 per 10 euro al giorno e niente permessi malattia. Se qualcuno protesta ha solo da andarsene da un’altra parte dove crede di trovare condizioni migliori.

        Ci fossero le stesse condizioni in Europa, l’Europa sarebbe economicamente messa meglio. Ma saremmo tutti sull’orlo della schiavitú. Infatti in Cina o sei un imprenditore (e allora guadagni tanto), o sei uno del partito comunista (e allora hai il culo parato sempre e comunque), o sei un semplice lavoratore (e allora lo prenderai sempre in quell posto). Anzi, puoi anche essere un internato del Laogai (il sistema carcerario cinese: si interna la gente se manca manodopera gratuita). In questo caso sarai sempre uno schiavo.

        1. Quercia

          Penso anch’io che il diritto del lavoro europeo (come quello tributario) sia da migliorare. Però ti faccio notare che il vantaggio di portare le produzioni in paesi in cui di fatto è permessa la schiavitù c’è solo perchè poi vendi quel prodotto in occidente e gli utili magari te li porti in qualche paradiso fiscale (non necessario questo ultimo passaggio).
          Se invece per vendere in Europa devi produrre e avere sede in Europa il tutto si “risolve”. Non si potrebbe più produrre in qualche paese del 3 mondo perchè poi non potresti venderli in europa. Poi le tasse le paghi in Europa. Se poi in Europa ci sono paesi con tassazioni più convenienti ci sarà la gara fra i vari paesi a migliorare la propria legislazione fiscale. Ora invece se una società sposta la sede in Irlanda (che non è definibile paradiso fiscale) viene punita per abuso di diritto (che è ovviamente una contraddizione in termini). Ovviamente il top sarebbe una legislazione tributaria, del lavoro, civile, commerciale ecc comune..ossia un unica legislazione valevole per tutta europa. Ma questo è ancora più complesso…

          1. ragnar

            Eh, vallo a spiegare ai nostri governanti che cosí si cresce… Quelli sanno solo che diminuire le tasse equivale a tagliare la spesa pubblica, dunque perdere i consensi di coloro ai quali é stato garantito un posto nella pubblica amministrazione in cambio del voto.
            Forse peró Berlino potrebbe imporre questa soluzione se la situazione peggiora ancora. Ma allora bisognerebbe anche stare attenti alla proliferazione ulteriore di lavoro nero. Perché nessuno si sognerá mai di abbassare le tasse.
            A dire la veritá credo di fronte a un simile scenario i nostri governanti decidano per l’uscita dell’Italia dall’Europa: hai idea di quante tasse in meno lo stato italiano dovrebbe imporre per essere competitivo? Non sia mai! E poi se anche ci provassero sai cosa succederebbe? Tutte le aziende sposterebbero la produzione in Irlanda, i sindacati comincerebbero a fare casino e scioperi e alla fine ci si troverá bloccati e ricattati a rimanere nella recessione.

      2. marzio

        Sono d’accordo Stefano.l’autarchia può essere una possibilità.Dobbiamo però abbandonare la mentalità individualistica vigente, e partire dal presupposto che imprenditori, dipendenti, liberi professionisti ,ecc., tutti abbiamo una responsabilità nei confronti di tutta la società, non solo nei confronti di noi stessi.La logica del ” farsi solo i ca,,i propri” è una sciagura, che ci ha portato alla attuale situazione.

  2. francesco taddei

    il modello della società del consumo è forte, viene ribadito nella vita quotidiana in modo ossessivo. una voce educativa in merito se c’è è molto debole. occorre davvero l’orecchio fino. risparmiare per investire(cioè per migliorare) non viene più preso in considerazione. è compito dei genitori? dello stato? della chiesa? dei partiti? delle ong?

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