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Coronavirus. La sanità a corto di risorse e il dilemma dei medici

Commento del Centro Livatino alle raccomandazioni della Siaarti sull'emergenza Covid-19: la responsabilità medica non sia sostituita da automatismi pericolosi. Abbandono terapeutico dietro l'angolo

Centro studi Livatino
10/03/2020 - 17:04
Interni
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Lotta a coronavirus e Covid-19 in reparto di terapia intensiva

L’emergenza Covid-19 sta mettendo a dura prova il sistema sanitario, in particolare i reparti di terapia intensiva nelle Regioni finora maggiormente interessate dall’epidemia. Il 6 marzo SIAARTI – Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva ha pubblicato le Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, che parte dalla constatazione dell’«enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive».

Le Raccomandazioni SIAARTI stanno provocando non poche discussioni, e sono state seguite, il 7 marzo, da una nota del dott. Filippo Anelli, presidente della FNOMCEO – Federazione degli Ordini dei medici, che richiama al rispetto del codice deontologico e alla eguale cura, senza discriminazioni, che ogni paziente merita dal medico.

Il Centro studi Rosario Livatino, premette quanto segue:

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  1. Oggi, ancora più di quanto non sia doveroso in una condizione ordinaria, è dovuto ai medici e a tutto il personale sanitario rispetto e sostegno per la loro dedizione e il loro impegno, soprattutto quando si svolge in reparti che espongono direttamente a gravi rischi per la salute, con turni che – al di là del pericolo di contagi – sono fonte di stress e richiamano a importanti responsabilità.
  2. Perché queste non siano parole vuote, rispetto e sostegno significa che tutti, pazienti e non, cessino di considerare il medico una controparte da chiamare in giudizio “in automatico”, a prescindere dalla rigorosa verifica della sua perizia e della sua diligenza, se non ottiene il risultato auspicato.
  3. Un simile atteggiamento, che si riflette sulla non infrequente propensione dell’autorità giudiziaria a far seguire a ogni denuncia l’avvio di un procedimento penale a carico del medico, è squilibrato in sé: lo è ancora di più in una fase di emergenza, che pone il medico di fronte a scelte drammatiche da assumere in tempi rapidi, con una inevitabile maggiore possibilità di errore.
  4. Un contesto del genere sembra essere alla base delle Raccomandazioni SIAARTI, se il documento afferma espressamente che esse hanno anche lo scopo «di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose». La preoccupazione – in sé fondata – è che non si creano assurde attitudini di colpevolizzazione dei medici, che non si favorisca la presentazione di querele pretestuose, che si eviti di dar seguito a denunce infondate, che si articolino delle regole che permettano di affrontare con minore angoscia una eventuale chiamata in giudizio, in linea con la codiddetta “medicina difensiva”.

Osserva che:

  • Se la situazione è eccezionale, in quanto tale essa non può essere oggetto di regole di carattere generale e astratto, se pure nella forma delle “raccomandazioni”. Un documento che abbia caratteristiche generali è logicamente incompatibile con quello stato di emergenza che sfugge alle catalogazioni. Se i motivi dell’emanazione delle raccomandazioni sono comprensibili (tutelare i medici da ingiuste aggressioni), tuttavia esse presentano il rischio di togliere al medico il diritto-dovere di provvedere, nel caso concreto, alla scelta giusta, in quanto appropriata alla situazione clinica che egli si trova a fronteggiare.
  • Riesce difficile definire la portata delle “raccomandazioni”: costituiscono un’appendice nuova al codice deontologico? Potranno essere invocate come scriminante? Che cosa accade per chi se ne discosti?
  • In realtà, oltre a rappresentare il riflesso dei condizionamenti prima indicati, le “raccomandazioni” risentono non poco dei più recenti interventi normativi e giurisdizionali in tema di fine-vita. È sufficiente leggere il n. 5 di esse, che invita a considerare «con attenzione l’eventuale presenza di volontà precedentemente espresse dai pazienti attraverso eventuali DAT (disposizioni anticipate di trattamento)». Come per le DAT, le “raccomandazioni” patiscono il limite logico di indicazioni – con carattere più o meno vincolante – “ora per allora”: possono costituire un orizzonte di massima, non un principio cogente, proprio perché sono espresse in termini generali, prescindendo dalla concretezza del caso nel momento in cui si presenta con caratteristiche proprie, specifiche, non sempre previamente catalogabili. Ogni condotta deve essere sempre valutata con riferimento alle circostanze che l’hanno accompagnata, non a quelle future: fra le ricadute negative della legge n. 219/2017 e della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, vi è la consacrazione normativa di una mentalità che mette fuori gioco determinate categorie di persone.
  • Volendo essere ancora più espliciti, non stiamo parlando di impartire disposizioni nel caso di presenza contestuale di più pazienti: in tal caso ad impossibilia nemo tenetur, ed è chiaro che il medico dovrà fare valutazioni che tengano conto del quadro clinico complessivo, cioè, unitamente alle altre circostanze, anche dell’età del paziente, che incide sulle prospettive complessive di guarigione. Si tratta invece di evitare il preventivo abbandono in attesa di pazienti più meritevoli: se le “raccomandazioni” fossero intese in questa direzione, alla fine il giudizio etico diventerebbe superfluo, introducendo una sorta di automatismo, invece del necessario esame della situazione concreta che il medico ha davanti. Se arriva in reparto una persona che può essere curata e salvata, nessuna “raccomandazione” può dissuadere dal curarla sulla base della previsione che altri potrebbero avere bisogno a breve della terapia intensiva. Il criterio non può essere solo quello della priorità temporale: non possono esserci criteri diversi dalla appropriatezza clinica, considerata sotto l’aspetto della ragionevole speranza di guarigione. Ogni altro criterio apre le porte a una discrezionalità che sfocia nell’arbitrio sanitario.
  • L’emergenza terminerà: con sforzo enorme, con sacrifici, in tempi oggi non prevedibili. Nessuno però può assicurare che “raccomandazioni” varate con le migliori intenzioni in un tempo eccezionale, domani divengano i criteri ordinari, in linea con un orientamento affermatosi in non pochi Stati nel mondo, a fronte di risorse per la sanità sempre strutturalmente limitate. In altri termini, le “raccomandazioni” non devono offrire ai governo la strada per ridurre ulteriormente le risorse curative in favore della popolazione.

Per concludere. L’emergenza Covid-19 può costituire occasione, più che per “raccomandazioni” che mostrano i limiti appena sintetizzati, di riflessioni:

  1. sul rispetto del ruolo del medico e del personale sanitario, da parte di tutti, autorità giudiziaria inclusa;
  2. sul rispetto della drammaticità della scelta del medico nel caso concreto;
  3. sui pericoli della “medicina difensiva”;
  4. sulla opportunità di ripensare le scelte che hanno determinato l’approvazione della legge sulle DAT e della sentenza della Consulta sul suicidio assistito;
  5. sul valore del codice deontologico medico, che oggi FNOMCEO opportunamente evoca a fronte delle Raccomandazioni SIAARTI, ma che appena un mese fa aveva subordinato all’acritico recepimento della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale.

Foto Ansa

Tags: biotestamentocentro studi livatinoCoronavirusdatfilippo anellifnomceomedicinamedicina difensivaordine dei mediciSars-CoV-2siaartitestamento biologico
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