La conversione di Jaruzelski, il comunista che imparò dal Papa che non esiste giustizia senza perdono
La settimana scorsa, circa un mese dopo la sua scomparsa, è stata data la notizia che il generale polacco Wojciech Jaruzelski si è convertito sul letto di morte. «Si è confessato, ha ricevuto il sacramento dell’unzione degli infermi e la santa comunione. Poi ha baciato le reliquie dei santi».
Jaruzelski era morto il 25 maggio a novant’anni e persino dopo il suo funerale, celebrato in chiesa il 30 maggio, c’erano state contestazioni. In una memorabile intervista a Annalia Guglielmi pubblicata su Tempi nell’ottobre 2009, Jaruzelski l’aveva notato con amarezza: «Il paese continua a perseguitarmi, forse questo è il mio destino». Come raccontò sempre a Tempi Lech Walesa, «il generale appartiene alla generazione dei tempi tragici. Una generazione infelice e tragica di uomini cresciuti in tempi drammatici, uomini che hanno tradito, ma soprattutto che sono stati traditi. Non sappiamo come sarebbero stati se fossero vissuti in condizioni diverse. Da questo punto di vista, provo addirittura simpatia, compassione per lui».
Forse non c’è miglior modo per comprendere la storia che studiare e immedesimarsi nelle biografie dei suoi protagonisti. In particolare con le scelte assunte nei momenti cruciali della vita, che per il generale portavano la data del 13 dicembre 1981, giorno in cui proclamò lo stato di guerra nel paese. Di quella decisione, Jaruzelski parlò a lungo con Tempi. Da un lato, rivendicandola, spiegando che non c’era per la Polonia altra scelta, pena l’invasione sovietica, dall’altro, però, – e lì stava il punto nodale della vicenda – rammaricandosene per le sofferenze provocate. «Siamo un enorme campo di battaglia e un enorme cimitero», disse parlando della Polonia e probabilmente anche di se stesso. «Non posso non chiedere perdono per il male che c’è stato. Non chiedo perdono per aver introdotto lo stato di guerra, perché sono convinto che sia stato necessario, che abbia salvato la Polonia, e su questo non cambio idea perché ho migliaia di prove, ma chiedo perdono perché all’interno di quel “male minore” sono stati in troppi a dover soffrire e dover soffrire troppo, in troppi sono stati rinchiusi inutilmente nei campi di internamento e tutto questo non era necessario. Ma si era messa in moto una macchina enorme che io non ero in grado di controllare fino in fondo, non potevo controllare le violenze gratuite dei singoli militari e per tutto questo ho chiesto e chiederò sempre perdono».
L’intervista di Jaruzelski a Tempi fu, al di là dei giudizi storici che altri con più competenza sapranno fornire, un’eccezionale documentazione di un animo umano inquieto che sa che anche una ricostruzione puntigliosa di quei momenti, una spiegazione zelante e non manichea di tutte le cause politiche che la giustificavano, non avrebbe comunque potuto ripagare e lenire le ferite provocate. Tra le prime, le stesse cicatrici sulle mani dell’assassino. Se, infatti, per le vittime innocenti esiste il riscatto della ricompensa ultraterrena o il tributo della memoria umana, che possibilità di redenzione esiste per chi si è assunto l’onere di scelte irrimediabilmente tragiche? Come disse Jaruzelski: «Sapevo bene che avrei dovuto sopportare quel peso fino alla fine dei miei giorni».
E allora non è forse un caso che in quello stesso dialogo, il generale ateo, comunista, persecutore di cristiani, continuasse a parlare di Karol Wojtyla e degli otto incontri in cui s’era trovato dall’altra parte del tavolo a dialogare con lui. Non solo rammentava le parole del Papa durante gli storici colloqui ufficiali, ma soprattutto quelle che Giovanni Paolo II gli aveva consegnato nei loro incontri privati, dopo la sua uscita dalla scena politica. Udienze «che il Papa non era tenuto ad accordarmi», «ma in cui trovò il tempo per me, il “grande peccatore”».
Davvero non sembra possibile esserci giustizia a questo mondo, non solo per le vittime immacolate, ma neppure per i carnefici pentiti. Ma, forse, quell’ultimo arrendersi del generale sul letto di morte a una Giustizia più grande è il suggerimento che esista un riscatto possibile anche nell’ultimo rantolo per l’uomo che, avendolo sperimentato, lo sappia implorare. Come disse Jaruzelski: «Ho interpretato questi gesti del Papa nei miei confronti come prova che egli non mi guardava secondo le categorie di colpevole o innocente, ma che guardava alla totalità della mia persona cercando di comprendermi. E questa è la cosa più importante, perché comprendere, in fondo, significa perdonare. Non me lo aspettavo, è stato un dono».
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