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Carceri, 76 suicidi. «Il sistema non sa cosa fare»

Ogni quattro giorni un uomo dietro le sbarre si toglie la vita. Intervista a Riccardo Arena (Radio Carcere): «La maggior parte dei detenuti è composta da persone psicologicamente fragili»

Peppe Rinaldi
13/11/2022 - 6:23
Interni
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La cella di un carcere italiano - Ansa

«Ma il carcere costruito in tal modo mi sembra troppo comodo, no? Comodo dev’essere se volete attirare più clienti». Fu il principe Antonio De Curtis, gigante della fantasia, in Totò terzo uomo a pronunciare l’irresistibile frase. Ma era fantasia, appunto. Un uomo in cella rimanda a mozioni interiori ancestrali, sbanca le montagne della storia e si annida nell’anima di una società, qualunque essa sia. E la nostra, parafrasando qualcuno, non si sente tanto bene al riguardo.

Si entra (e non si entra) per mille ragioni ma dopo, spesso, troppo spesso, non si sa come va a finire. I numeri oggi ci dicono che in molti casi va a finire male: settantacinque suicidi dall’inizio del 2022, uno ogni quattro giorni di media. E manca ancora un mese alla fine dell’anno.

Tempi ne ha parlato con Riccardo Arena, giornalista, avvocato penalista, storico direttore della rubrica di Radio Radicale “Radio Carcere”. Insomma, uno che conosce bene l’argomento.

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Settantacinque suicidi dall’inizio dell’anno secondo il rapporto diffuso nelle scorse ore da Antigone: secondo te perché c’è stata questa recrudescenza, ammesso che sia possibile individuare una sola causa?

Intanto i suicidi nelle carceri sono diventati 76, l’ultimo, per ora, si è impiccato nel carcere di Torino. Ma, al di là dei numeri, che mai sono stati così alti dal 2009 quando contammo 72 suicidi, resta il fatto che negli anni la tipologia della popolazione detenuta è cambiata profondamente, mentre il carcere è rimasto lo stesso, rigido come un monolite. Oggi infatti, e a differenza di anni fa, sono una minoranza i cosiddetti banditi incalliti, i duri e puri che resistono al degrado carcerario, mentre la maggior parte dei detenuti è composta da persone psicologicamente fragili, disperate, persone che arrivano da una libertà emarginata. Persone per le quali la detenzione, così come viene eseguita oggi, equivale a ricevere un colpo di grazia. Ecco, credo che quest’impennata di suicidi dimostri prima di tutto l’assoluta incapacità dell’attuale sistema penitenziario, che è rimasto sempre lo stesso da oltre 30 anni, ad affrontare questo cambiamento.

Mi indichi, con relativa precisione, dove e in cosa l’Italia è “fuori” dalle leggi e regolamenti europei/internazionali in tema di regime carcerario?

L’elenco sarebbe lungo e forse noioso. Mi limito a citare l’articolo 3 della Convezione Europea dei Diritti dell’uomo che vieta trattamenti disumani e degradanti. A questo proposito la Corte Europea ha stabilito che vi è trattamento disumano e degradante quando una persona detenuta vive in cella con meno di 3 metri quadrati calpestabili. Ebbene, oggi abbiamo in Italia 56.225 detenuti che sono ristretti in circa 47 mila posti effettivi e sono davvero poche, per non dire pochissime, le celle delle carceri dove i detenuti vivono con più di 3 metri quadrati a testa. Ora, provate a contare 3 metri quadrati e poi provate a immaginare di vivervi per 2, 3 o 6 anni senza poter fare nulla di utile per tutto il giorno, senza poter sperare di rifarvi una vita. Questa è la realtà della maggior parte dei penitenziari italiani, anche se l’Europa, dopo la sentenza Torreggiani, sembra averlo dimenticato.

Nelle altre nazioni Ue c’è una situazione analoga a quella italiana in tema di suicidi in carcere?

Gli ultimi dati disponibili, che risalgono al 2019, ci dicono che in Italia il 38 per cento dei decessi era dovuto a suicidio, mentre la media dei suicidi nelle carceri europee era del 28 per cento. Un dato che va preso con le molle, non solo perché datato, ma anche perché tra i Paesi dell’Unione Europea le singole realtà detentive sono assai diverse, come diverse sono le soluzioni adottate.

In carcere si muore per le stesse ragioni per le quali ci si suicida?

Il problema della tutela della salute in carcere è di grande portata. E questo non solo per i decessi dovuti a malattia che sono avvenuti dall’inizio del 2022 (ben 76 anche qui), ma per le sofferenze patite da chi si ammala in carcere e non riceve cure adeguate. Penso a chi è affetto da un tumore e non riceve una terapia costante, penso a chi per giorni ha avuto in cella un infarto ed è stato ignorato o a chi ha perso un rene o una gamba perché non si è intervenuti in tempo. Senza dimenticare chi soffre di una patologia psichiatrica, chi patisce il peso di una dipendenza o chi è anziano e non ha nessuno, se non un compagno di cella che lo possa accudire. Ora, per carità, chi sbaglia è giusto che paghi, ma c’è scritto da qualche parte che chi è condannato debba anche rischiare di morire per una pena o debba patire sofferenze non previste in nessuna sentenza penale di condanna?

Quanto incidono la relazione e la gestione delle funzioni tra guardie carcerarie e detenuti in questo fenomeno?

Sono tantissimi gli agenti della polizia penitenziaria che sono bravi e che salvano delle vite. Poi, certo, come in ogni categoria, c’è chi non fa bene il proprio lavoro e quando questo accade nelle carceri diventa drammatico. Ma il punto credo sia un altro. Ovvero che nelle carceri gli agenti si devono occupare solo della sicurezza, mentre sono costretti loro malgrado a fare da educatori, da psicologi o da mediatori culturali, che non è il lavoro per cui sono stati formati, anzi non è proprio il loro lavoro. E questo perché i nostri penitenziari sono privi di quelle figure professionali che sarebbero assolutamente necessarie per rendere la pena un tempo utile e far sì, anche a tutela della nostra sicurezza, che si esca da lì migliori e non peggiori rispetto a quando si è entrati. Insomma, le nostre galere assomigliamo sempre di più a enormi magazzini dove stipare corpi dalle vite sospese, magazzini dove oltre ai custoditi ci sono solo i custodi.

Anche la polizia penitenziaria lamenta forte carenza d’organico e pessime condizioni di lavoro, in questi anni abbiamo assistito anche ad un aumento dei suicidi tra il relativo personale in servizio: come te lo spieghi?

È vero. Oggi la polizia penitenziaria è costretta a fare un lavoro più che usurante, direi disperante. E se a questo aggiungi un’assoluta mancanza di un supporto psicologico o occasioni per ricevere un minimo di ascolto, la ricetta per un dramma annunciato è pronta. Ed è in questo che i destini e le sofferenze tra “guardie” e “ladri” si ritrovano, perché nelle carceri custodi e custoditi sono vittime dello stesso degrado.

Quale è il carcere peggiore in assoluto in Italia e quale il “migliore” e perché?

Eh! I peggiori sono tanti e per diverse ragioni. Mi viene in mente l’inferno di Poggioreale, Canton Mobello di Brescia, quello di Taranto, quello di Termini Imerese, o quello di Pordenone che è un castello del 1200! Sui migliori invece spicca, o almeno spiccava, il carcere di Bollate. Un carcere dove i detenuti lavorano, si rifanno una vita e dove è bassissimo il tasso di recidiva. Un carcere, che dovrebbe essere la normalità in un paese civile, che però è nato e resta come un esperimento. Tradotto: in Italia ciò che funziona resta arginato ad eccezione e i risultati positivi di quell’esperimento restano tali e non diventano prassi. Mi sembra un tipico paradigma italico o no?

Da dove bisognerebbe cominciare, quale potrebbe essere l’inizio vero di una inversione di rotta?

I problemi nelle carceri sono tanti e sono aumentati nel tempo per colpa di una politica indifferente. Oggi credo che sarebbe importante iniziare raccogliendo la proposta del Comitato contro la Tortura del Consiglio d’Europa che ha invitato gli Stati membri a introdurre il numero chiuso nelle carceri. Ecco quella sì che sarebbe una bella partenza.

Tags: carcerisovraffolamento carceri
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