Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Scusate il fatto personale piazzato all’inizio di questo trattatello – che potremmo intitolare “Calciomercato 2.0, la fine delle balle più o meno spaziali” –, ma quando si invecchia, come dice il mio amico Fred Perri (che saluto caramente anche se non gliene importa una cippa), tra giornalisti si tende a trombonizzare, invece di tro… Capisci a me. Ho fatto due scoop di calciomercato, uno all’inizio e uno alla fine della mia carriera di giornalista sportivo dipendente. In un certo senso ho chiuso il cerchio. In entrambe le occasioni i miei capi non mi hanno creduto, sebbene le notizie fossero vere. Nella prima occasione, ero uno sbarbato alle prime armi, mi mandarono a coprire il calciomercato perché lo specialista non c’era. Era un sabato di giugno, faceva un caldo regolare, nel senso che si scoppiava al momento giusto, con la temperatura giusta, non con gli sbalzi africani di oggi. Il mercato, a quei tempi, aveva un luogo preciso, uno spazio, un posto. Non c’erano pc, cellulari, skype, FaceTime. C’erano solo i vecchi telefoni e gli affari si facevano/concludevano faccia a faccia sui marciapiedi che andavano dall’hotel Gallia, proprio accanto alla stazione Centrale di Milano, fino all’Hilton, girato l’angolo a destra. Duecento metri, due cateti di un triangolo rettangolo. E lì andai, anche se era sabato e non beccai nessuno. Quasi nessuno. Un dirigente di una piccola squadra, uno di quelli che non faceva il week end – parentesi: allora che c’erano i soldi veri i direttori sportivi si godevano la vita, adesso che le palanche sono meno della metà sono sempre sul pezzo – mi spifferò la notizia.
Le mie due bombe
Allora se volevi sapere di una trattativa tra due squadre dovevi chiedere a una terza. Lo scoop era questo: Fulvio Collovati, stopper campione del Mondo, dopo un anno all’Inter, era stato ceduto dal Milan, la società che ne deteneva il cartellino, all’Udinese. Era l’Udinese di Zico e Mauro, mica pizza e fichi, però Collovati era Collovati e ambiva a una squadra di rango, di quelle con il portafoglio titoli bello gonfio. Tornai tronfio al giornale e riferii. Non mi credettero e non me lo fecero scrivere. Invece era vero, l’indomani il bubbone esplose perché Collovati rifiutò il trasferimento in Friuli. Il mio capo mi convocò e mi fece, a modo suo, i complimenti postumi: «Avevi fatto l’unico scoop di mercato della tua vita e non te l’abbiamo pubblicato». Si sbagliava, ne ho fatto uno quasi sui titoli di coda del lungo film da giornalista sportivo dipendente (ora dipendo solo da me stesso). E questo, anche se non ci credevano, me l’hanno pubblicato, perché come disse un leggendario caporedattore napoletano a chi gli contestava un articolo perché non vero: «Non è vero ma è bello». Questo era il senso del calciomercato fino ai nostri giorni. Comunque, sul Corsera, ho anticipato l’addio dell’Apache, presentato qualche giorno fa al Boca Juniors: Tevez lascerà la Juventus che ha già pronto il sostituto, Dybala, scrissi ad aprile.
Mi sono beccato gli insulti dei tifosi juventini, dei quali solo un paio, quando Carlitos due mesi dopo si è imbarcato per Buenos Aires, si sono degnati di chiedere scusa. Ma la riconoscenza, come la coscienza dei propri errori, non appartiene al mondo del calcio.
Il popolo non è più bue
Raccontato dei miei rari coinvolgimenti con il calciomercato, parliamo della situazione del medesimo ai giorni nostri, quelli della crisi, delle società italiane in mani straniere, dei grandi campioni che mai metteranno piede in Italia. Noi che abbiamo avuto, per citare solo la schiuma, Maradona, Platini, Zico, Rummenigge, Van Basten, Zidane, Ronaldo, non riusciamo a tenerci-far rientrare neanche Alexis Sanchez, avessi detto Garrincha. Questo tempo del calciomercato è quello della fine delle balle, è quello dei sogni a scartamento ridotto, anzi dei sogni di ritorno come potrebbe essere Zlatan Ibrahimovic al Milan, un’idea, non una bufala, ma bisognerebbe che il mercenario svedese si riducesse di un bel po’ lo stipendio. Guardo la tv, scorro i giornali e ripenso al famoso titolo della Gazzetta di quasi quarant’anni fa: “Rossi all’Atalanta”. Era Paolo prima di Pablito, era l’enfant prodige del calcio italiano, non uno qualsiasi e per una giornata i tifosi della Dea vissero sulle nuvole. Era una balla colossale, ma nessuno ci fece caso, come nessuno si è mai indignato dei proiettili (a salve) sparati fino a due anni fa. Il calciomercato italiano è sempre stato interpretato dai media come una palestra dell’assurdo. L’importante era fare il titolone, vinceva chi la scriveva più grossa. Mi viene in mente quello che diceva Nereo Rocco ai suoi giocatori, prima che scendessero sul prato: «Ti te va in campo e te tira a tutto quello che te vede pasar, se anche el balon, pasiensa». Ecco fino all’altro ieri, con i club italiani già scivolati dalle posizioni di testa a quelle di retroguardia, i media italiani esageravano, facevano nomi improponibili per le nostre società senza più mecenati disposti a tirar fuori sghei a fondo perduto. In realtà la colpa della proliferazione della bufala è dovuta anche ai tempi infiniti del mercato: a parte che molti affari si intrecciano e si concludono fuori dal periodo canonico, ormai praticamente tutta l’estate è un grande tavolo di discussione. Due mesi, luglio e agosto. C’è chi comincia il ritiro con una squadra e lo finisce con un’altra. Un povero giornalista deve riempire la pagina, il palinsesto, il sito in continuazione.
La bufala è morta
Non potevamo andare avanti a sentirci grandi senza esserlo, anche se è la nostra specialità. Il mercato si è improvvisamente ripulito, si è liberato dei fronzoli, delle scorie. E il popolo lo ha spinto verso la professionalità e poi si è adeguato. Sta dando prova di grande autocontrollo.
Ad esempio, un ottimo giocatore come Geoffrey Kondogbia, due grandi partite nel As Monaco contro la Juventus nei quarti di Champions, è stato salutato come un immenso acquisto dai tifosi dell’Inter. Mi piace, ha un grande avvenire davanti, ma 30 milioni (più sei di bonus) sono tanti. Beh, per lui, fino a qualche anno fa, non sarebbe stata prevista la comparsata dal balcone e nemmeno il coretto «che ce frega di Pogba/ noi abbiamo Kondogbia». Fino a qualche anno fa la differenza la faceva l’acquisto di Ronaldo, di Milito, di Eto’o non di un ottimo centrocampista. Fino a qualche anno fa si andava sotto il balcone per Kakà. Ora basta poco per esaltarsi, ora i tifosi di calcio mostrano una maturità nei confronti del mercato che poi perdono negli altri aspetti del settore calcio, a cominciare da quello comportamentale dentro gli stadi dove la bestialità italiana, assolutamente trasversale, da destra a sinistra, di sopra e di sotto, cattolica o buddista, bianca o colorata, resta assolutamente inalterata.
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