Bortolussi: «Non serve lo sciopero, ma la detassazione del lavoro»
Giuseppe Bortolussi è il segretario della Cgia di Mestre, l’associazione degli artigiani e delle piccole e medie imprese, posizione che gli permette di avere un osservatorio speciale per comprendere se, dopo la crisi della finanza di inizio estate e ora, con la manovra votata in queste ore al Senato, possono esserci risvolti anche sul mondo dell’occupazione. L’Istat, ad esempio, a fine giugno registrava un tasso di disoccupazione fermo all’8 per cento, con 14 mila posti a tempo indeterminato in meno, ma allo stesso tempo una crescita dei contratti precari (a progetto e part time). Secondo Confartigianato, inoltre, il tasso di occupazione giovanile è del 30 per cento, solo un under-35 su tre in pratica lavora.
Bortolussi, qual è la situazione che osserva nel mondo delle pmi?
La situazione in realtà è abbastanza stabile: la perdita di posti di lavoro è minore rispetto al 2010. Oggi però c’è il problema di capire che effetto avrà la crisi finanziaria di inizio estate. Attualmente il tasso di disoccupazione è dell’8 per cento: questa crisi potrà avere nuovi risvolti sull’occupazione, ma il nostro tasso è minore della media europea che si aggira al 10 per cento. Certamente le aspettative non sono molto positive, c’è paura per il futuro.
Ciò che rende “stabili” le percentuali Istat sulla disoccupazione, sono in realtà i contratti precari. Che effetto ha questo sulla vita quotidiana della nostra economia?
È vero che la percentuale di disoccupazione è rialzata da quella dei lavori precari, ma attenzione, il lavoro resta lavoro anche se precario, perché nel tempo tendenzialmente questi contratti diventano accesso ad un lavoro stabile. Quello che vedo è che le aziende hanno le stesse incertezze dei lavoratori precari, aspettano di vedere come vanno le cose: ma se si trova un lavoratore in gamba si fanno sempre i salti mortali per tenerselo stretto, e questo specialmente nelle piccole imprese. Nelle pmi quello che vedo è la fame addirittura di operai specializzati, trasportatori, autisti di muletto, commesse, contabili. A mio avviso, serve in sintesi la possibilità che ad una formazione culturale di base, come quella dei nostri licei per esempio e poi più avanti nelle università, che è essenziale per un popolo, si sommi una formazione specifica, non che venga sostituita dalla sola formazione professionale. Prendiamo per esempio i dati sull’occupazione giovanile. Da noi si attesta intorno al 30 per cento, con picchi anche doppi nel Meridione. In Austria o Germania è al 10 per cento: in quei paesi c’è una predilezione per l’istruzione professionale, che offre la stessa cultura di un liceo, ma aggiunge una preparazione specifica per il mercato del lavoro. Sa qual è il lavoro più diffuso dai nostri vicini di casa austriaci? Il fumista, cioè il vecchio spazzacamino: mentre da loro parlano due o tre lingue, da noi per i fumisti c’è una sola scuola in tutto il paese. E ancora: c’è fame di professionisti paramedici, da noi in Italia, un’occupazione di tutto rispetto, per cui è necessaria la laurea. Ma nessuno pensa a fare l’infermiere, o il radiologo?
In questi giorni si parla moltissimo dell’impresa vicentina della famiglia Mastrotto. La Guardia di Finanza ha rilevato un’evasione per 1 miliardo e 300 milioni di euro, e di operai pagati in nero. I Mastrotto invece hanno spiegato alla stampa che i dati sono diversi: non ci sarebbe stata evasione di oltre un miliardo di euro come riportato dai media, e soprattutto i dipendenti dell’azienda sono regolarmente assunti, ma hanno chiesto espressamente ai vertici che gli straordinari venissero loro pagati in nero. Cosa pensa lei?
La vicenda Mastrotto è molto interessante, perché, sebbene non conosca personalmente questo gruppo, so per certo che non è un caso isolato, né esclusivo del Veneto, ma rappresenta una situazione critica in tutto il Paese e che ha conseguenze dirette sull’occupazione. La prima cosa che penso è che Mastrotto secondo me ha sbagliato, ma perché evadendo non fa altro che aggirare a livello di singolo un problema di tutti. Il suo caso serve a far capire che va detassato il lavoro. Mastrotto, forse anche per disperazione, può aver cercato di uscirne da solo: il problema invece è di tutti e bisogna affrontare insieme lo Stato e chiedere compatti una detassazione e più garanzie per l’occupazione. Il punto è infatti che una pmi, rispetto ai colleghi europei, paga il 40 per cento in più per l’energia, il 10 per cento in più per i trasporti e come se non bastasse soffre di ritardi impressionanti nei pagamenti della pubblica amministrazione e di una burocrazia inefficiente. E allora: sì, lo confermo, anche da quello che osserviamo noi della Cgia ci troviamo davanti ad una tassazione feroce, non solo per l’impresa, ma anche per i dipendenti, che crea l’effetto di chiedere pagamenti in nero. So di operai specializzati che si rompono la schiena e poi si vedono la busta paga dimezzata dalle trattenute. Ovvio che preferiscano avere il pagamento in nero. Il punto è che o detassiamo il lavoro o finiremo per perdere posti di lavoro.
Il prossimo 6 settembre la Cgil ha indetto uno sciopero generale contro la manovra, e contro tutte le misure previste per i lavoratori. Lei cosa ne pensa?
Dello sciopero non vedo l’utilità. Che la manovra non piaccia lo capisco perché è un tentativo di spegnere un incendio che divampa, non di risolvere il problema. Solo che se la casa brucia, adesso non si può andare per il sottile. La Cgil dice che i sacrifici non sono adeguatamente distribuiti. Non dimentichiamo che l’Italia è uno dei paesi con redditi peggio distribuiti: circa l’80 per cento di essi sta al di sotto degli 8 mila euro. Uno dei problemi più gravi è che un lavoratore con un contratto stabile è iper protetto, mentre non lo è assolutamente chi ha contratti precari. In Olanda e Danimarca il problema è stato risolto liberalizzando i rapporti assunzione/licenziamento e allo stesso tempo garantendo un sostegno a chi resta senza lavoro. Io penso che questo tipo di proposta sarebbe importantissima da noi. Se si dessero le medesime garanzie, con risorse pubbliche, a tutti i lavoratori, anche ai precari (per esempio con l’offerta di corsi per i lavoratori licenziati, e il sostegno dell’80 per cento dello stipendio perduto) dall’altra parte si dovrebbe permettere che il vincolo licenziamento/assunzione sia meno restrittivo. Lo sciopero della Cgil si basa su una critica sostanziale e giusta, perché i lavoratori, i loro diritti e le garanzie sono temi che vanno assolutamente difesi, ma non è il 6 settembre il momento di farlo, bensì tutti i giorni lavorando nella direzione che dicevo. Da parte della Cgil vedo invece solo paura di perdere dei diritti. In fondo credo che sarebbero d’accordo anche loro, ma non si fidano.
Cosa pensa della manovra? E dell’abolizione del contributo di solidarietà?
Il contributo di solidarietà lo trovavo sbagliato, perché viene chiesto sempre ai soliti, che poi sono pochissimi. Ho invece un giudizio negativo sul fatto che le spese pubbliche non sono ancora state sottoposte alla nostra attenzione. Perché siamo arrivati a questo punto? Perché noi paghiamo più tasse degli altri paesi, ma le spese pubbliche restano incontrollate. La manovra dimostra ancora una volta questo atteggiamento. Su una manovra da 130 miliardi in quattro anni, 83 miliardi arriveranno da nuove entrate, e solo 49 miliardi da tagli. Un vecchio vizio italiano. Prevedo che questa manovra avrà un impatto recessivo, e nel 2014, l’anno di maggiore impatto (con la manovra che inciderà con 55 miliardi) vedrà una pressione fiscale di circa il 45 per cento. Insomma, ogni 100 euro guadagnati ne pagheremo 45, ma senza avere i servizi di paesi come Danimarca, Olanda, e altri paesi. Prevedo che ci troveremo stretti in una tenaglia più tasse e meno Pil. Ricordo che negli ultimi 10 anni sono stati tagliati 111 mila posti di lavoro nella pubblica amministrazione, ma la spesa è cresciuta di ben 38 miliardi. Per alcune categorie il salario è cresciuto del 46 per cento. L’Italia spende l’11,2 per cento del Pil sul pubblico impiego, la Germania il 7, 4: perché? Che senso ha che ci siano pubblici dipendenti che vanno in pensione con il 100 per cento del proprio stipendio, e dall’altra parte operai che vanno in pensione solo con i propri contributi. Perché questa differenza?
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