Tutti quei bambini figli dell’Isis «da sacrificare in nome di Allah». Reportage da Sirte liberata

Di Francesca Mannocchi
18 Gennaio 2017
Le mogli dei jihadisti pronte a farsi saltare tra i nemici con i loro piccoli al collo. E i ragazzini indottrinati che ripetono: «Infedeli, mio padre vi ucciderà»

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Riproponiamo il reportage di Francesca Mannocchi da Sirte (Libia) pubblicato dall’Osservatore Romano.

L’offensiva militare per liberare Sirte, autoproclamata capitale del cosiddetto stato islamico (Is) nel Maghreb, è durata sette mesi.

Da maggio a settembre la città è stata teatro di un’aspra battaglia, di una guerra feroce casa per casa e di più di cinquecento bombardamenti americani che l’hanno resa oggi uno spettrale ammasso di macerie. Quella che fu la città natale dell’ex rais Gheddafi, bacino del suo consenso nonché scenario della sua morte, è oggi un cimitero a cielo aperto.

Intorno alla rotonda di Zafaran, dove fino a pochi mesi fa i miliziani dell’Is impiccavano i cittadini, ogni strada porta i segni della battaglia, non un solo edificio è stato risparmiato. Le case sono distrutte, così come le banche, le scuole, gli ospedali e le moschee. Solo pochi segni del passaggio dell’Is restano sui muri, sotto forma del timbro che identificava i negozi che dovevano pagare le tasse al sedicente stato islamico.

E restano due cartelloni, il primo invita alla preghiera, nel secondo un uomo impugna un Kalashnikov sotto una scritta: «Se tradisci Daesh, stai tradendo la tua famiglia».

Durante le ultime settimane di guerra, i capi militari hanno ripetuto con insistenza che la loro priorità era quella di salvare i civili intrappolati nelle poche case sotto assedio rimaste in mano ai miliziani dell’Is. Ma la distinzione tra civili e miliziani è diventata via via più vaga e pericolosa. Due settimane prima che Sirte fosse dichiarata finalmente libera, infatti, due donne — fingendo di essere civili in fuga dall’Is — si sono fatte esplodere in prossimità dei soldati libici che tentavano di salvarle. Hanno ucciso i soldati, ma anche i bambini che portavano con loro.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Mofth Ali ha vent’anni, è uno dei soldati sopravvissuti all’attentato suicida, ma ha il braccio sinistro ferito da una scheggia. «L’abbiamo vista avvicinarsi con un bambino in braccio — dice — le abbiamo detto che l’avremmo aiutata, che avrebbe dovuto darci il bambino, aprire la coperta che aveva addosso e mostrarci di essere disarmata. Lei continuava a camminare, lentamente. Ci fissava. Poi improvvisamente ha lanciato il bambino verso i soldati e si è fatta esplodere». Mofth Ali si considera fortunato. Può raccontare questa tragica storia. Ma ha perso amici e compagni.

Abdalh Ahmed, un altro dei soldati feriti, racconta: «Pochi giorni prima che la guerra finisse, stavamo avanzando lentamente. Una donna e un bambino sono usciti da una casa distrutta, chiedevano di essere salvati. Ma un cecchino dell’Is ha sparato alla donna, uccidendola. Il bambino è rimasto vicino al corpo della madre morta e noi eravamo completamente impotenti, non potevamo fare nulla. Non potevamo salvarlo, perché se ci fossimo avvicinati a lui, il cecchino ci avrebbe ucciso. Ha ucciso quella donna e usato lo strazio di suo figlio per tentare di avvicinarci e spararci. Abbiamo dovuto lasciare lì quel bambino».

I soldati libici descrivono con dovizia di particolari la crudeltà dei miliziani negli ultimi giorni della guerra: bambini usati come esche, bambini — presumibilmente loro figli — da sacrificare in nome di Allah.

Raccontano che di notte potevano sentire i jihadisti minacciare le proprie mogli che piangevano, le tenevano in ostaggio per usarle come scudi umani.

«La cosa terribile — continua Abdalh Ahmed — è che hanno usato le loro stesse famiglie, i loro figli, per cercare di colpire noi. Hanno preferito mandare a morire mogli e figli anziché arrendersi quando la battaglia era ormai evidentemente persa. Non avevano niente da bere e da mangiare da settimane, ma avrebbero preferito farli morire di fame piuttosto che lasciarli salvare da noi».

Abdalh Ahmed sottolinea come i figli dei miliziani siano le vere vittime della guerra all’Is in Libia. Molte delle donne e dei bambini evacuati sono stati portati negli ospedali da campo per un primo controllo. Nel primo ospedale, il dottor Walid el Hamroush si prendeva cura dei bambini estratti vivi dalle macerie. «I bambini che abbiamo tentato di stabilizzare — racconta — erano tutti denutriti e disidratati, non mangiavano da settimane. Una bambina ci ha confessato di aver mangiato solo acqua e spezie per due mesi».

I figli dell’Is sono stati addestrati a tacere, nessuno di loro svela l’identità e la provenienza dei padri. Dicono solo: «Mio padre sta combattendo», «mio padre è morto e Allah si vendicherà».

Uno dei bambini nel primo ospedale da campo dice di chiamarsi Mohammed, avrà otto anni, forse dieci. È visibilmente disidratato. Quando i dottori cercano di avvicinarsi per nutrirlo comincia a urlare: «Siete infedeli, mio padre vi ucciderà. Mio padre dice che gli infedeli devono essere puniti e uccisi».

Khaled Zowbat, uno degli autisti delle ambulanze negli ospedali da campo, racconta di aver salvato un bambino, durante una delle ultime notti di guerra. «Avrà avuto non più di cinque anni, era triste, sporco, affamato, mi ha raccontato di aver visto morire entrambi i genitori a Sirte. Quando ho tentato di prenderlo in braccio per portarlo via con me mi ha detto: “Mio padre e mia madre sono andati in paradiso, mio padre ha detto che voi meritate solo l’inferno”. Il destino di questi bambini è la vera tragica conseguenza dell’Is. Sono stati addestrati all’odio, educati alla vendetta».

Le mogli dei miliziani, alcune di loro madri dei bambini salvati, sono detenute in attesa di essere interrogate.

Una di loro ha poco più di vent’anni, dice di essere tunisina, e sostiene che suo marito, un membro dell’Is, l’abbia costretta a seguirlo a Sirte dopo averle fatto il lavaggio del cervello.

«Mi vergogno di tornare a casa mia — dice la donna, che rifiuta di rivelare il suo nome — mio marito mi ha plagiata e io non potrò mai più guardare in faccia i miei genitori. Negli ultimi giorni mi diceva che io e i bambini dovevamo prepararci a morire in nome di Allah. Che era nostro dovere sacrificarci».

Tutte queste donne e i loro figli avrebbero bisogno di un supporto medico e psicologico, ma uno dei grandi problemi del dopo liberazione, a Sirte, è che in Libia — a causa del caos politico e militare che contraddistingue il paese ormai da anni — ci sono pochissime organizzazioni umanitarie e quasi completamente prive di mezzi.

«Bisogna ripartire da questi bambini — dicono a gran voce tutti i medici — altrimenti tra dieci anni avremo lo stesso problema di oggi, se non salviamo i figli dell’Is dalla violenza alla quale sono stati educati, saranno i fondamentalisti di domani».

Foto Ansa

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