«Avanti così e finiremo per festeggiare negli anni in cui il Pil non cala»
Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Da diversi anni Luca Ricolfi ama percorrere strade in contromano rispetto al flusso della narrazione dei più. Liberale riformista, come si autodefinisce, è una spina nel fianco della sinistra massimalista e, più in generale, di quel pensiero omologante che spadroneggia sui nostri media. Sociologo, insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, è presidente e responsabile scientifico della Fondazione Hume ed è l’autore di libri che hanno fatto molto discutere, come Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2008 e Il sacco del nord. Saggio sulla giustizia territoriale. L’ultima sua fatica, La società signorile di massa, mantiene alta la sua reputazione di bastiancontrario, fornendo un ritratto molto disincantato di un paese che ama molto piangersi addosso e poco reattivo nell’immaginare soluzioni alternative al declino.
La società signorile di massa è da lei definita come una «società in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano». Eppure, lo nota spesso anche lei, la “narrazione” prevalente nel paese è tutta all’insegna del vittimismo e della retorica sulle difficoltà ad “arrivare alla fine del mese”. Cosa c’è di vero e cosa no in questa narrazione?
C’è un fenomeno che si presenta in molti campi: le vere vittime non hanno voce, le presunte vittime strillano a più non posso. Ho imparato questa regola da un mio caro amico, che faceva il medico: mi raccontava che, se un paziente strilla e fa il diavolo a quattro, puoi star sicuro che non ha niente di grave, mentre – all’opposto – se ha qualcosa di grave puoi star sicuro che non strilla, rispetta il medico, e in generale assume un atteggiamento di grande dignità e compostezza. Nella società italiana le vere vittime sono coloro che appartengono alla infrastruttura para-schiavistica, circa 3 milioni e mezzo di persone, che ho analizzato e distinto in sette diversi segmenti sociali (con leggera prevalenza degli immigrati). Questi non hanno voce, perché troppo ricattabili sul piano economico, e troppo deboli sul piano sociale e culturale. Al contrario, la maggioranza auto-vittimizzante è spesso costituita da persone che non se la passano troppo male, o addirittura se la passano bene, e semplicemente pretenderebbero ancora più diritti, e qualche volta ancora più privilegi.
La scuola. Lei ne parla soprattutto analizzando l’abbassamento dello standard d’istruzione. Ma non è che si è persa anche l’idea di che cosa significhi “educare”?
Certo, i genitori moderni lo trovano troppo faticoso, preferiscono chiudere un occhio ed affidare i figli a quelli che si potrebbero definire «dispositivi di distrazione di massa»: tablet, smartphone, video-giochi, televisione. C’è però anche un altro aspetto della non-educazione, che è l’iper-protezione dei figli, un fenomeno che in Italia è esploso a metà degli anni Novanta, ma – contrariamente a quanto si pensa – non è solo italiano. Sugli Stati Uniti, ad esempio, ci sono due autrici che lo hano descritto accuratamente: Hara Estroff Marano (A Nation of Wimps, Una nazione di schiappe, 2008) e Jean Twenge (i-Gen, 2017, tradotto in italiano come Iperconnessi, Einaudi).
Lei scrive che la «scuola senza qualità» ha generato la «disoccupazione volontaria». Sono numerose le pagine del libro in cui lei parla del giovin signore. A un certo punto scrive: «Se i miei genitori ultrasessantenni permettono a me ultratrentenne di condurre una vita piacevole e senza obblighi, perché dovrei rinunciarvi?». Esatto: perché il giovin signore dovrebbe rinunciarvi? Si perde qualcosa a non fare una “vita di sacrifici”, cioè a non dover faticare per ottenere qualcosa?
Si perdono tre cose, fondamentalmente. La prima è l’autostima, che anche al giorno d’oggi non può non poggiare (anche) sull’autonomia economica. La seconda è la possibilità di formare una famiglia e avere dei figli. La terza è una vecchiaia serena, che per la maggior parte degli attuali “giovin signori” dipende non solo dal patrimonio ereditato, ma anche dai contributi pensionistici versati. La mia opinione è che il giovin signore, quando è ricco ma non ricchissimo (diciamo quando crede di ereditare 3-400 mila euro, o meno) sopravvaluta la protezione garantita dal patrimonio immobiliare, che fra venti anni varrà sensibilmente meno di oggi e, soprattutto, sarà ancora più illiquido.
Mi ha colpito la sua definizione di «condividere», parola che ha subìto uno slittamento semantico. Dal significato originale di “dividere con” gli altri a “inondare la vita altrui dei fatti miei”. I social network sono un buon esempio di questa pratica. Soprattutto negli ultimi anni, in cui ci si è accorti che i social network non sono strumenti neutri, si è cominciato a stilare dei decaloghi di bon ton, di buon uso della tecnologia. Basta questo per ritornare al senso originario della parola “condividere”?
Temo di no. C’è molta ipocrisia nell’ideologia della condivisione: tutti sono pronti a mettere in comune le proprie esperienze (specie se gratificanti), ma quasi nessuno prenderebbe in casa un ospite bisognoso, o sarebbe disposto a sacrificare qualche aspetto del proprio stile di vita.
«La mente signorile è un caso estremo di individualismo». Cosa significa?
Nel libro non mi dilungo su questo punto, ma la mia idea è che la società italiana sia la più individualista del mondo, e che sulle due forme classiche dell’individualismo (self interest e autorealizzazione) oggi si sia innestata una componente ulteriore: l’ostentazione del proprio modo di vita.
Se le dico che il reddito di cittadinanza e quota cento sono due riforme che sembrano perfettamente coerenti con la società signorile di massa, lei cosa mi risponde?
Che è esattamente così! In entrambi i casi si cerca di sganciare, completamente o parzialmente, il reddito percepito dal proprio apporto produttivo.
Lei dice che siamo passati dalla cultura del possesso a quella dell’uso. Questo è accaduto anche perché facciamo sempre meno figli, cioè non abbiamo eredi cui lasciare qualcosa?
Può anche darsi, ma l’ipotesi che lei prospetta è forse fin troppo sofisticata. Io tendo a pensare che ci siano ragioni e meccanismi più terra terra: il possesso presuppone un periodo di astensione dal consumo, mentre l’uso permette una gratificazione immediata, senza il fastidio dell’attesa.
Perché la società italiana è così distratta? Sono appena usciti i dati sulla crescita allo 0,3 per cento, i più bassi d’Europa, e l’argomento è apparso e subito scomparso dalle pagine dei nostri quotidiani. Si è parlato molto di più della manifestazione del M5s contro i vitalizi, delle sardine o di uno qualsiasi dei quotidiani post di Salvini su Facebook. Mesi fa, per qualche giorno, il dibattito si infiammò sul Mes, poi silenzio. Perché?
Un po’ perché questa è la logica dei media, un po’ perché i media italiani sono provinciali e patologicamente legati al mondo della politica. Per quel che ne so, in nessun altro paese avanzato lo spazio che i telegiornali dedicano a decine di dichiarazioni irrilevanti di politici irrilevanti è ampio come in Italia.
Finiremo come l’Argentina?
Esattamente come l’Argentina no. Siamo un paese dell’euro e penso che riusciremo ad essere originali anche nel nostro modo di imboccare la strada del declino. Intanto dovremo vedere come evolverà la vicenda del coronavirus, e se i suoi effetti economici sull’Italia – come appare probabile – saranno maggiori che sugli altri paesi. In questo caso potremmo aspettarci che alcuni paesi europei entrino in stagnazione, e che l’Italia sia uno dei pochi ad entrare in recessione già nel 2020. Se saremo sempre guidati da politici come quelli attuali è ragionevole prevedere che nei prossimi anni entreremo in un regime di alternanza fra anni di stagnazione e anni di più o meno lieve recessione: finiremo per congratularci con noi stessi negli anni in cui il Pil non cala.
Perché ha definito le sardine «beniamine del potere»?
Perché hanno il plauso di tutto l’establishment. Delle due l’una: o pensiamo di avere una classe dirigente all’altezza, e allora le sardine hanno il merito di appoggiarla. Oppure la nostra classe dirigente è uno dei drammi dell’Italia, e allora le sardine avrebbero il dovere di criticare chi ha le leve del comando. Il fatto che, invece, il loro bersaglio sia l’opposizione, spiega perché il potere le ami e le blandisca.
Foto Ansa
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