Perché la decisione della World Athletics sulle atlete trans è sacrosanta

Di Roberto Gotta
26 Marzo 2023
Dal 31 marzo chi ha iniziato la transizione dopo la pubertà non potrà partecipare alle competizioni internazionali femminili. Questione di buon senso, scienza, equilibrio competitivo e tutela delle donne
atlete transgender

atlete transgender

Il mondo va a rovescio, e la dimostrazione è nel fatto che un esempio di buon senso venga da una federazione internazionale, quella di atletica: la decisione, venerdì, di proibire dal 31 marzo la partecipazione di atlete transessuali alle competizioni internazionali femminili. Nello specifico, atleti che abbiano completato la transizione dopo la pubertà, vissuta quindi come sesso maschile, esattamente come deciso dalla Federazione nuoto nel luglio scorso.

La decisione della World Athletics sulle atlete trans

Un cambiamento di rotta rispetto a posizioni precedenti della World Athletics: fino ad oggi infatti era sufficiente che le atlete transessuali, per essere ammesse alle gare, avessero un massimo di 5 nanomoli di testosterone per litro di sangue, mantenendo tale livello per un periodo ininterrotto di 12 mesi, mentre solo due mesi fa era trapelata l’intenzione di seguire l’esempio stabilito nove mesi fa dalla federazione ciclistica (UCI) e modificare tali parametri, dimezzando la quantità di testosterone e raddoppiandone il periodo di mantenimento.

La UCI era stata molto chiara: «Studi scientifici hanno dimostrato che possono volerci due anni perché la muscolatura maschile si adatti al livello femminile, mentre 2,5 nanomoli per litro corrispondono alla quantità massima di testosterone rintracciabile nel 99,99 per cento della popolazione di sesso femminile… Considerando il ruolo fondamentale che la forza muscolare e la potenza esercitano nel ciclismo, la federazione ha dunque deciso di aumentare il periodo di transizione da 12 a 24 mesi».

Qualcosa però negli ultimi due mesi è cambiato, a seguito anche di quello che Sebastian Coe, presidente della federazione, due ori olimpici nei 1500, ha definito come «scarso sostegno» da parte delle federazioni nazionali, atleti, allenatori, Comitato Olimpico Internazionale e associazioni per la difesa dei diritti umani e transessuali. Ecco allora la decisione di venerdì, che tiene conto di una numerosa serie di studi scientifici secondo i quali la pubertà maschile produce una serie di effetti che, anche dopo l’assunzione di farmaci per ridurre il livello di testosterone a quel massimo di 2,5 nanomoli, garantiscono una migliore prestazione atletica.

Le decisioni di UCI e Federazione nuoto sui trans

E se la UCI aveva stabilito quei parametri e la Federazione nuoto aveva messo allo studio la creazione di una categoria open, nella quale possano gareggiare atleti la cui identità sessuale percepita è diversa da quella effettiva alla nascita, la World Athletics ha preferito dunque di seguire fino in fondo le indicazioni scientifiche, riservandosi di modificarle, e allo scopo ha dato indicazioni per la formazione di un gruppo di lavoro che nei prossimi dodici mesi esamini la situazione, gruppo che comprenderà tre membri del direttivo, tre atleti di cui una transessuale, tre rappresentanti di federazioni nazionali e altrettanti del dipartimento salute e scienza della WA stessa.

Che ha inoltre preso decisioni anche su un altro tema delicato, quello delle atlete nella condizione DSD, differences in sex development, in italiano DSS, disordini dello sviluppo sessuale o proprio DSD, disturbi della differenziazione sessuale, che avvengono quando, alla nascita un bambino presenta una combinazione di cromosomi che non sia XX (femmina) o XY (maschio).

Il caso Semenya

È il caso di Caster Semenya, la mezzofondista sudafricana oro negli 800 ai Giochi del 2012 e 2016, e di altre 12 atlete, che dovranno ridurre e mantenere per due anni i livelli di testosterone da 5 a 2,5 nanomoli per poter partecipare ad una qualsiasi gara, mentre dal 2019 le restrizioni riguardavano solamente le specialità di corsa tra i 400 metri e il miglio. Le atlete attualmente impegnate nelle discipline precedentemente esentate avranno la possibilità di ridurre i livelli e mantenerli per almeno sei mesi. Come conseguenza, nessuna delle 13 potrà partecipare ai Mondiali di Budapest di agosto, ma sarà invece possibile la competizione ai Giochi di Parigi del 2024. Va peraltro detto che la Semenya non gareggia proprio dal 2019, essendosi rifiutata, per motivi legati alla salute a lungo termine, di assumere farmaci per l’abbassamento del livello di testosterone.

Una scelta che tutela le donne

Quello che a volte si perde, in queste discussioni sul sesso non degli angeli ma delle persone, è che l’obiettivo di tutte le recenti decisioni è preservare quello che dovrebbe essere alla base della competizione sportiva: l’equilibrio competitivo. Per rispetto verso le atlete donne, che in questi ultimi anni di follia ideologica si sono trovate di fronte alle pretese di una minoranza aggressiva e intollerante, naturalmente sbandierate come tolleranza e inclusione (?). Allucinante quindi come, nella presunta era dei diritti, la categoria più bersagliata da una minoranza fanatica, rumorosa e ben rappresentata nei media sia quella che fino a pochi anni fa era in reale, non percepito o preteso, deficit di uguaglianza, appunto le donne, nello sport e nel lavoro. Se ci vuole una federazione sportiva, e solo nel suo ambito, per riportare un po’ di buon senso, stiamo freschi.

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