Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti).
Il New York Times ha raccontato che l’anno scorso la Brown University di Providence, Rhode Island, ha organizzato un incontro sulla “rape culture” (la cultura dello stupro) nei campus americani, un tema molto caldo del dibattito pubblico del paese, spesso presentato come autentica emergenza nazionale ma anche molto controverso, vista la promiscuità quasi proverbiale dell’ambiente universitario. Le relatrici erano due femministe con punti di vista diversi sull’argomento, ma per la Sexual Assault Task Force, la “squadra antistupro” dell’ateneo, la garanzia di un contraddittorio non era sufficiente a tutelare le menti degli uditori da possibili shock intellettuali, e così ha ottenuto di allestire a lato della conferenza un “safe space”, uno spazio sicuro «a disposizione di chiunque trovasse il dibattito troppo sconvolgente». La stanza, secondo il quotidiano progressista, «era attrezzata con biscotti, libri da colorare, bolle, plastilina, musica tranquillizzante, cuscini, coperte e un video di cuccioli giocosi, oltre a volontari e membri dello staff preparati ad affrontare i traumi».
È solo uno degli ormai innumerevoli episodi che testimoniano il dilagare nelle istituzioni educative del mondo anglosassone della mentalità denunciata da Claire Fox. La censura politicamente corretta, ha osservato da sinistra la scrittrice inglese in un articolo ospitato dal Daily Mail, «è particolarmente diffusa nelle università», che invece di preoccuparsi di attrezzare le coscienze degli studenti per l’impatto con le idee e le cose della vita, sono in preda a un’isterica mania di proteggerle da qualunque possibile confronto con la realtà. Oltre ai casi citati anche nell’intervista a Tempi, la Fox ricorda sul Daily Mail i “trigger warning” introdotti dalla Oxford University per avvertire gli allievi della presenza di argomenti potenzialmente ansiogeni nelle lezioni di diritto in cui si trattano casi di violenza sessuale (un analogo “trigger warning” è stato richiesto l’anno scorso da alcuni studenti della Columbia University di New York per Le Metamorfosi di Ovidio, tanto zeppe di abusi e atrocità da minacciare di «marginalizzare le identità degli studenti»). Mentre la Cambridge University «a marzo ha vietato una festa a tema su Il giro del mondo in 80 giorni per timore che i costumi etnici provocassero qualche offesa».
Perfino la storia è offensiva
Il filone del “safe space” etnico-razziale naturalmente è ricchissimo. Emblematico, secondo il New York Times, il bidone combinato da un gruppo di studenti dell’Hampshire College, nel Massachusetts, a una band afrofunk colpevole di aver scatenato una «disputa al vetriolo» su Facebook e Twitter per via di un presunto eccesso di musicisti bianchi nel gruppo. Non da meno, sempre nel Massachusetts, il caso dello Smith College, dove la presidente Kathleen McCartney è stata costretta a pubbliche scuse per non avere contestato una collega che reclamava il diritto di non sostituire la parola “negro” con l’eufemismo “n-word” nelle lezioni su Le avventure di Huckleberry Finn. Non si contano più, poi, le università americane che nel giorno tradizionalmente dedicato a Cristoforo Colombo preferiscono festeggiare un meno offensivo Indigenous People’s Day.
Quello dei nomi e dei termini proibiti in quanto “unsafe” è un altro filone inesauribile di notizie paranormali. Una per tutte: le linee guida super inclusive adottate dal dipartimento di atletica dell’Oberlin College, in Ohio, in virtù delle quali i transessuali devono essere designati nei documenti ufficiali con una perifrasi gender-neutral di 25 parole (venticinque).
Perfino un intellettuale non proprio estraneo al mainstream liberal come Timothy Garton Ash, professore di Studi europei alla Oxford University, in un memorabile intervento al festival letterario e artistico di Hay, il 30 maggio scorso, si è detto esasperato dall’isteria collettiva del “safe space” universitario che «ci sta portando via la libertà di espressione una fetta alla volta». Nel suo discorso Garton Ash ha aggiunto qualche esempio alla lista. L’annullamento, proprio a Oxford, di un dibattito sull’aborto contestato dalle femministe. Il boicottaggio subìto all’università di Cardiff da Germaine Greer, la femminista che ha avuto l’ardire di sostenere che i trans sono e restano “non donne” anche dopo l’operazione. E naturalmente la celebre campagna, iniziata in Sudafrica nel 2015 e sbarcata anche in Gran Bretagna, per la rimozione da tutti gli atenei delle statue di Cecil Rhodes (foto in alto), uomo d’affari, statista e filantropo dell’Ottocento (la Rhodesia, oggi Zimbabwe, si chiamava così in suo onore), divenuto intollerabile alla generazione fiocco di neve per le sue «opinioni politiche razziste» da imperialista britannico.
E come se non bastasse lo zelo politicamente corretto di professori e associazioni studentesche, ora ci si mettono pure «i sicurocrati del ministero dell’Interno», ha detto Garton Ash. L’Home Office infatti «vuole imporre alle università il cosiddetto obbligo di prevenzione, che ci vedrebbe chiamati a impedire di parlare nei campus perfino agli estremisti non-violenti». In pratica secondo il professore di Oxford oggi negli atenei britannici non avrebbero diritto di parola neanche «Marx, Rousseau, Darwin, Hegel e chiaramente Gesù». Tutti pericolosissimi estremisti non-violenti.
Gli atenei col bavaglio
La deriva illiberale è talmente grave che la rivista Spiked Online, legata a Claire Fox e al suo Institute of Ideas, ha deciso di creare il Free Speech University Rankings (Fsur), un comitato che si è preso la briga di monitorare tutti gli atenei britannici e le relative associazioni studentesche e di classificarli secondo la propensione alla censura di ciascuno, sulla base di direttive, decisioni ufficiali e azioni concrete intese a mettere al bando idee e zittire persone. Il sito dedicato al ranking, che contiene tutte le fonti giornalistiche e le prove documentali, è molto istruttivo. Secondo i calcoli del Fsur, la situazione sta precipitando: se nel 2015 le università che «hanno attivamente censurato parole ed espressioni» erano il 41 per cento del totale, quest’anno sono il 55 per cento.
Foto Ansa/Ap