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Anche i giudici della Corte Suprema abbandonano la piccola Pippa all’eutanasia

Paula ha perso la battaglia per permettere alla sua bambina di vivere la vita che le resta a casa tra i suoi cari. Per la legge inglese è meglio che muoia subito, privata di aria, cibo e acqua in ospedale

Redazione
09/04/2021 - 2:00
Esteri
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Foto dal sito della Society for the Protection of Unborn Children (Spuc)

Paula Parfitt ha perso la sua battaglia e la sua bambina: i giudici della Corte Suprema non esamineranno il caso della piccola Pippa Knight, i medici dell’Evelina Children’s Hospital potranno procedere quindi col distacco dei supporti vitali come autorizzato dai giudici in primo grado e dalla Corte di Appello. 

Tempi vi aveva già raccontato la storia della bambina di cinque anni del Kent entrata in stato vegetativo a causa di una encefalopatia necrotizzante acuta, una rara malattia neurologica. Secondo i medici a cui la mamma, vedova, un altro bambino di sette anni da crescere, l’ha affidata nel 2019 piena di speranza, la bambina «ne ha passate troppe» e pur convinti che non stia provando alcun «dolore o disagio», «non ha speranze di migliorare»: a che pro tenere in vita un vegetale?

Malata e orfana di papà, per i giudici «è così straziante»

Cinquanta pagine di sentenza: tante sono state quelle firmate dal giudice Nigel Poole l’8 gennaio scorso per impedire a Paula di dare assistenza alla sua bambina a casa, aiutata da un ventilatore meccanico e da tutte le apparecchiature necessarie, ma anche da parenti, nonni, zii, persone che guardando Pippa in stato vegetativo non vedono un bambolotto di cui disfarsi e pensano che ventilarla, idratarla e nutrirla fino al sopraggiungere della morte naturale non sia accanimento terapeutico.

La storia di Pippa è «straziante», ha scritto il giudice firmando la sua condanna a morte (come si chiama togliere a un essere umano se non è in procinto di morire i supporti vitali? In Inghilterra “best interest”), dopo aver saputo che il papà della bambina si era suicidato quando la meningite gli aveva portato via il suo primogenito. A nulla era servito il parere di due medici esterni e contrari a quelli dell’ospedale che ritenevano valesse la pena rischiare di fornire assistenza domiciliare fino al sopraggiungere della morte naturale della piccola, se l’alternativa era la morte anticipata con distacco del respiratore. 

La fine di Charlie, Alfie, Isaiah

Tutto quello che chiedeva Paula era il rispetto delle sue decisioni, prese in quanto madre della piccola e avallate da professionisti (tutt’altro che sciamani), cioè che venisse considerata la fattibilità del trasferimento a casa. Non era e non è ricca, Paula, affatto: ma aveva e ha dalla sua il sostegno non solo dei suoi cari ma della Society for the Protection of Unborn Children (Spuc), che non solo si era offerta di sostenere le spese legali per fare ricorso alla Corte d’Appello, ma anche di lanciare una raccolta fondi per sostenere il suo percorso domiciliare.

Il fatto che Paula sia la mamma di Pippa tuttavia conta poco: a differenza di R.S., il paziente polacco ricoverato a Plymouth morto di fame e di sete il 26 gennaio scorso, dopo avere resistito 12 giorni senza idratazione e nutrizione (il ritiro dei supporti vitali era stato ordinato dalla moglie e la volontà della donna non era stata messa in discussione né dalla disponibilità del paese di origine del marito di accoglierlo, provvedendo a tutti i costi di trasferimento e cure, né dalle opinioni diverse da quelle dei medici dell’ospedale, ritenute “inappropriate” perché espresse da medici cattolici), nel caso di Pippa, come di Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup, «la responsabilità della decisione è della Corte», non di un parente né di un genitore.

L’impossibile “opzione Tafida”

Contano poco i precedenti: anche Tafida Raqeeb aveva cinque anni quando i medici inglesi, pur presentando la piccina uno stato di minima coscienza e una situazione meno complessa di Pippa, la condannarono a fare la fine di Charlie, Alfie, Isaiah, anche ai suoi genitori i giudici avevano negato qualunque trasferimento ritenendo che morire, distaccata dai supporti vitali, sarebbe stato «nel suo migliore interesse». Due genitori di fede musulmana che i media non si sono mai sognati di dipingere come accaniti prolife e che erano riusciti a trasferirla alla fine al Gaslini di Genova, dove la piccola ha mostrato subito segni di miglioramento.

Un privilegio, seppure non al fine di un miglioramento, ma solo un accompagnamento alla fine, negato a Pippa, una «bambina gravemente disabile» condannata da «un ragionamento etico profondamente imperfetto», ha denunciato l’Anscombe Bioethics Center di Oxford, offrendo un’analisi dettagliata della sentenza per ricordare che la sospensione dei sostegni vitali è giustificabile quando non serva al suo scopo, «quando il trattamento sarebbe benefico e non eccessivamente oneroso invece non è altro che abbandono». 

I vescovi contro giudici e medici

Posizione ribadita anche dalla Conferenza episcopale dell’Inghilterra e del Galles all’indomani della pubblicazione del giudizio d’Appello che aveva respinto tutti i motivi di impugnazione presentati dagli avvocati di Paula: «Dobbiamo garantire senza compromessi che vengano fornite cure adeguate dove c’è ancora vita, nonostante gravi malattie o disabilità. Ci viene ricordato che tale cura deve includere la fornitura di nutrizione e idratazione, con qualsiasi mezzo, che non è né cura né medicina, a meno che questo non diventi eccessivamente oneroso – aveva scritto John Sherrington,vescovo ausiliare di Westminster -. La fine intenzionale della vita di un paziente in condizioni critiche a causa di un giudizio sulla sua qualità non è mai nel migliore interesse del paziente».

L’Alta Corte, la corte d’Appello e ora la Corte Suprema hanno tuttavia negato a Pippa il suo diritto di essere assistita dalla mamma, la quale non può neppure prendere decisioni in relazione alle sue cure (un diritto garantito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia), non ha riconosciuto la possibilità di un beneficio ad essere assistita da chi le vuole bene a casa invece che da chi vorrebbe vedere il suo letto libero in ospedale, e non ha nemmeno riconosciuto la possibilità che una vita abbia senso se non è vissuta in piena coscienza. La stessa negazione che avrebbe impedito a Tafida di essere curata oggi nel suo lettino al Gaslini di Genova se una mamma e un papà, più attrezzati finanziariamente e culturalmente di Paula, non si fossero battuti come leoni per portarla via dall’Inghilterra: nel caso di Tafida c’era «un piano di assistenza completamente organizzato e finanziato», ha scritto il giudice Poole nella sua sentenza, mentre «non sappiamo se l’assistenza domiciliare sia praticabile per Pippa». 

La piccola vita “futile” sul passeggino

Un atroce distinguo che ha fatto di Paula non più una madre a seguito dell’opinione di medici «che si accordava alla sua visione del best interest della figlia», ma un accanita prolife: «Una madre single vuole che i medici continuino a curare la sua figlia cerebrolesa» la presenta Sky, «La mamma porta a spasso la sua bambina», il titolo più onesto della Bbc che pochi giorni prima del rifiuto dei giudici a tornare sul caso aveva visto Paula in giro con la piccola sul passeggino attaccata a un ventilatore portatile. Era la terza volta che la bambina veniva portata fuori dall’ospedale. 

Anche il Times ha parlato di “gusto della vita” dando eco alle parole della mamma: «Qualche settimana fa non pensavo che avremmo potuto passeggiare così. Nell’ultima settimana siamo uscite tre volte con un ventilatore portatile. Questo dovrebbe far capire alle persone che è possibile», possibile portarla a casa con un ventilatore più sofisticato, «che offrirebbe a Pippa ancora più movimento e potrebbe aiutarla ancora di più», almeno a vivere tutto il tempo che le resta a casa, forse solo pochi mesi ma con i suoi cari, diceva la sua mamma pienamente consapevole della brevità della vita concessa a Pippa ma che i giudici hanno stabilito fosse meglio terminare prima possibile: è «così straziante» la sua storia, che futilità, per usare un aggettivo caro ai giudici inglesi nel giudicare casi come questi, e che senso avrebbe prolungare una vita così breve in cui coscienza e sofferenza sono assenti in ugual misura agli occhi della legge?

Tags: alfie evansanscombe bioethics centerCharlie Gardcorte supremaEutanasiaIsaiah Haastrupregno unito
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