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Home Salute e bioetica

Amare Massimo o l’eutanasia

Non si può girare intorno alla storia dell'uomo che ha vissuto vent’anni in stato vegetativo, «vent’anni da marito, vent’anni da padre». Aggrappato (come Susanna, Gianni, Carlo) a qualcuno che non abbandona e non ammazza

Caterina Giojelli
09/09/2021 - 3:00
Salute e bioetica
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«Vent’anni nella stanza dei pazienti che non guariranno mai. Vent’anni da marito, vent’anni da padre». Sapete cosa c’è nell’articolo della Stampa su Massimo Vita, pubblicato nell’ambito del dibattito lanciato da “Mario” per ottenere la morte assistita? C’è tutto. Tutto quello a cui per settimane hanno girato attorno gli articoli pro eutanasia dello stesso giornale. C’è l’evidenza che a rendere una vita degna di essere vissuta (e a farti chiamare il guscio malridotto di uno stato vegetativo “marito”, “padre”), è qualcuno che non ti abbandona.

Massimo Vita, tecnico informatico, è morto a 56 anni: sua moglie Monica gli è stata accanto fino all’ultimo respiro. «Vai tranquillo, amore, io sono qui», gli ha detto domenica mattina, a mezzogiorno e un quarto, e Massimo se ne è andato. “Qui” cioè con lui, accanto a un letto di una struttura specializzata di Scorzè, in provincia di Venezia. Il 7 novembre 2001 – erano sposati da soli quattro anni, un bimbo piccolo di tre – l’avevano chiamata dalla rianimazione. Un incidente terribile, uno scontro contro un bus; qualche testata ne parlerà facendo coincidere con quella data la fine «del vissuto» di Massimo e l’inizio di un’età «andata avanti solo sul calendario». Che stupidaggine.

In stato vegetativo, «ci ha amati ogni ora»

Quando Monica ricevette il responso dei medici – «stato vegetativo irreversibile, dieci, quindici anni di vita al massimo» – è stata travolta dal dolore, ma mai da un dubbio. Per vent’anni, ogni singolo giorno, ha raccontato al marito tutto quello che accadeva, come andava il figlio a scuola, hanno festeggiato insieme ogni Natale, compleanno, lui sbatteva le palpebre per dire sì, stava immobile per dire no. E sorrideva, riconosceva i passi della moglie nel corridoio. Racconta la coordinatrice sanitaria della struttura che Massimo respirava spontaneamente ma veniva alimentato col sondino, il capo appoggiato a un supporto: «In questi casi non sai mai dove possono arrivare i tuoi tentativi, fino a che punto arrivino le parole». Ma Massimo sembrava mettercela tutta. «Quello che ho capito è che queste persone hanno il diritto di essere assistite, non dobbiamo mai lasciarle sole». È restato cosciente anche quando diventò impossibile alimentarlo. Poi, aggravatosi, se ne è andato tra le braccia di Monica.

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Vent’anni da padre e marito, e «ci ha amati ogni ora»: è grata Monica («sono felice di averlo accompagnato nella sua grande forza per stare attaccato alla vita») ed è grato il figlio Andrea («tutto quello che so l’ho imparato da lui»), che si porterà alla laurea la grande foto della festa di matrimonio dei suoi genitori appesa nella camera del padre: Massimo non smise di guardarla per vent’anni.

Vite dannate, vite dedicate

Sapete cosa c’è nell’articolo della Stampa su Massimo Vita? Non c’è “una testimonianza” tra tante, c’è una certezza a guida della vita. Della vita “dannata” da una malattia e della vita “dedicata” al malato. La stessa certezza a cui si è aggrappata per quindici anni nel carcere della Sla la nostra amica Susanna Campus, e sua sorella Immacolata che ogni minuto le ha teso la mano, regolando cannule, sondino, asciugandole gli occhi, dedicandosi a lei. La stessa che ha portato Anna Micheli a custodire la vita di suo marito Gianni, mancato lo scorso aprile dopo 14 anni di “veglia non responsiva”: 14 anni da marito, padre, nonno, una vita che era anche la vita di Anna e chi lo amava. Che ha spinto Mirella ad alzarsi ogni santa notte per undici anni per controllare che la macchina dell’ossigeno non si inceppasse, medicare per due ore piaghe da decubito, alleviare il prurito di suo marito, Carlo Marongiu, il possente pompiere sardo che scriveva con gli occhi a mogli infelici, usurai e galeotti che la vita andava «addentata». E tanti altri, come Giuseppina, a non chiedere più di farla finita.

La certezza di qualcuno che non ti abbandona. Che non si sgrava la coscienza rimettendo a te la scelta se levare il disturbo o meno. Che ti ama e non ti ammazza. Punto. Non c’è da girarci intorno: c’è tutto nella storia di Massimo Vita e di altri come lui, vite illuminate da un amore incondizionato, motori immobili della carità. C’è l’evidenza che un uomo inchiodato al letto, che qualcuno non ha mai avuto il dubbio di abbandonare o uccidere, continua ad essere uomo, padre, marito. Non un insignificante guscio a cui fornire un rapido e indolore servizio di sgombero.

Foto freestocks su Unsplash
Tags: Carlo MarongiuEutanasiafine vitasusanna campus
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