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Al Sisi, il rais indispensabile

Europa e Stati Uniti si erano illusi di favorire la nascita di un islam democratico in Medio Oriente. La caduta dei tiranni tanto impresentabili quanto necessari ha lasciato la regione senza regole

Gian Micalessin
01/03/2015 - 3:00
Esteri
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egitto-al-sisi-al-azharLa Storia ha già provato a spiegarcelo: c’è poco da far gli schizzinosi. Succede nel maggio 1980 quando, dopo 37 anni di fulgida dittatura, il maresciallo Josip Broz Tito lascia a noi europei l’eredità della sua Jugoslavia. Mamma Storia a quel tempo è clemente e ci regala almeno dieci anni di riflessioni. Dieci anni in cui avremmo potuto anche capire. Quell’eredità era un giocattolo fragile, tenuto insieme da meccanismi conosciuti solo al suo demiurgo. Estremamente semplici, ma troppo brutali per venir apprezzati da un Occidente convinto di poter marciare verso la democrazia e la pace garantite. Così, invece di aprire gli occhi e studiare quel puzzle chiamato Jugoslavia, decidemmo di applicarci le nostre regole. Il risultato degli esperimenti condotti dagli apprendisti stregoni europei è emerso in tutta la sua chiarezza undici anni dopo. Nel giugno del 1991 l’eredità del dittatore Josip Broz Tito ci esplose in faccia innescando una guerra spietata. Una guerra accesasi proprio nel cuore di quell’Europa che credevamo immune da conflitti e destinata all’inevitabile pacificazione democratica.

A ben guardare, anche quella guerra, accesasi in un inizio d’estate di giugno a Lubiana, proseguita a Zagabria, esplosa in tutta la sua virulenza prima in Bosnia poi in Kosovo per arrivare – agli inizi del 2000 – fino in Macedonia, qualcosa avrebbe potuto insegnarci. Anche osservando l’eredità di Tito e le guerre dei Balcani con una postura da entomologhi qualcosa avremmo dovuto capire. Ad esempio che il rischio di un passaggio da una dittatura ordinata a un caos pernicioso è tanto più alto quanto più è arretrata la condizione di quel paese. Non a caso, la Slovenia, un frammento dell’impero asburgico probabilmente incompatibile con il resto del puzzle balcanico jugoslavo, è la tessera in cui la guerra dura meno (dieci giorni in tutto), causa limitate perdite umane e in cui la democrazia e un’economia di stampo occidentale riescono, alla fine, ad attecchire meglio. Non a caso, nel 2004 la Slovenia entra a far parte dell’Unione Europea e della Nato ed è la prima, poi, ad adottare l’euro.

Un percorso sconosciuto alle meno ordinate tessere balcaniche sopravvissute a papà Broz Tito. La Croazia per arrivare alla sospirata indipendenza paga un tributo di 20 mila vite umane consumate in cinque anni di guerra. La Bosnia di vite ne brucia 200 mila per arrivare, al termine di quattro anni di orrori, a una divisione del territorio che dura da ormai oltre vent’anni. Il Kosovo, strappato alla Serbia, si trasforma in una repubblica del malaffare dove la democrazia e l’avvicinamento all’Europa sono soltanto il paravento all’egemonia delle mafie locali e all’emarginazione di una comunità serba condannata allo stesso ruolo di quella minoranza albanese che sostenevamo di voler difendere e riscattare.

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L’esperienza della dissoluzione jugoslava avrebbe anche dovuto far capire che il tentativo di plasmare il magma politico sociale ereditato da volonterosi ma imperscrutabili dittatori rischia di tradursi in costi notevoli per gli apprendisti stregoni. Costi materiali quantificabili in miliardi di dollari o di euro il cui onere spetta inevitabilmente alle potenze stabilizzatrici, chiamate a bloccare la guerra e a imporre un difficile processo di ricostruzione. Pensate alla Bosnia. I nostri soldati, sbarcati nella Sarajevo distrutta, continuano da vent’anni ad operare sia lì, sia nel vicino Kosovo. E solo i miliardi di euro spesi per quelle missioni hanno impedito che la guerra si riaccendesse. Tutto questo dovrebbe farci capire che se mettere le mani nel lascito di un dittatore europeo, ancorché balcanico, era affare complesso, cercare di abbattere un dittatore mediorientale impedendo il caos e garantendo la democrazia è impresa impossibile. E invece, nonostante la sanguinante piaga jugoslava, ci siamo illusi di poterci disfare prima di Saddam Hussein, poi di Hosni Mubarak, infine di Muhammar Gheddafi. Tre dittatori sicuramente impresentabili per i canoni occidentali. Ma indispensabili per la stabilità dei loro stati e per l’equilibrio delle aree circostanti.

saddam-hussein-shDa uno sterminio a un altro
La destituzione di Saddam Hussein è da questo punto di vista esemplare. Certo il personaggio qualche “difettuccio” l’aveva. La guerra dichiarata all’Iran nel tentativo di schiantare la neonata e pericolosa potenza sciita figlia della rivoluzione khomeinista, si protrasse per otto lunghi anni causando più di un milione di morti. La spietata repressione dei curdi ne provocò altri centomila. Per non parlare dei cinquemila civili sterminati in un solo giorno durante l’attacco con le armi chimiche alla cittadina curda di Halabja. E senza dimenticare l’invasione del Kuwait e le decine di migliaia di sciiti scomparsi nelle prigioni di Baghdad.
La cura non sembra però migliore della malattia. Stando alle statistiche dell’Iraq Body Count, l’organizzazione indipendente anglo americana che conteggia i civili caduti dopo la deposizione del dittatore iracheno, il bilancio complessivo delle violenze scoppiate dopo il 2003 si aggira intorno ai 130-150 mila morti. Qualcuno potrebbe anche rallegrarsi pensando a un bilancio, in termini meramente statistici, meno pernicioso di quello attribuibile a un Saddam Hussein ancora in vita.
Al netto del milione di morti causati dalla guerra con l’Iran, il bilancio della repressione saddamista non sembra però peggiore del caos scatenato dalla sua deposizione. E questo senza contare il vaso di Pandora apertosi con la scomparsa del dittatore. Una scomparsa che ha permesso a un Iran finalmente libero dall’assillo del suo principale nemico, di giocare alla grande potenza regionale. E alle forze jihadiste di muoversi attraverso i vasi comunicanti di un Medio Oriente senza più regole e custodi. Perché, almeno da questo punto di vista, a Saddam Hussein qualche merito “post mortem” va riconosciuto. Con lui al potere l’arruolamento dei sunniti nell’esercito limitava e circoscriveva il contagio del fondamentalismo jihadista mentre il controllo del paese impediva la nascita di movimenti jihadisti. E la contrapposizione permanente con Teheran impediva agli ayatollah di creare quel solido asse sciita che oggi da Teheran attraversa l’Iraq e una Siria ancora nelle mani di Bashar al Assad per affacciarsi, grazie ad Hezbollah, fin sul confine d’Israele. Un asse che spinge l’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait e le altre potenze sunnite a foraggiare quei movimenti del jihadismo terrorista considerati il miglior contraltare alla potenza iraniana.

Manca solo il siriano Assad
Dal punto di vista dei valori e degli interessi occidentali, è impossibile non constatare come l’eliminazione di Saddam Hussein abbia innescato una persecuzione dei cristiani senza precedenti. Il milione e mezzo di cristiani presenti in Iraq nel 2003 rappresentavano una comunità antica e rispettata. Oggi a 12 anni di distanza quei cristiani sono praticamente scomparsi. Lo scorso giugno, con l’arrivo dello Stato islamico a Mosul, la presenza della croce è stata – per la prima volta nella storia – cancellata sia dalla città sia dai villaggi della circostante Piana di Ninive. Solo la scomparsa del dittatore ha permesso la nascita, a cavallo tra il nord dell’Iraq e gli adiacenti territori siriani, di una stato dell’orrore chiamato Califfato grande quanto l’Austria. Un Califfato dell’Orrore figlio, nella sua propaggine siriana, delle distrazioni di un Obama che pensava di poter aggiungere alle deposizioni di Saddam, Gheddafi e Mubarak, anche quella di Bashar al Assad. Follie a cui Washington, Londra e Parigi non sembrano però voler rinunciare.

martiri-copti-libia-stato-islamicoIl golpista egiziano e noi
Da questo punto di vista il caso egiziano è forse ancora più illuminante di quello libico e iracheno. Al Cairo la presenza di un’istituzione stabile e consolidata come l’esercito ha impedito il rafforzarsi del regime di Morsi e dei Fratelli Musulmani. Un regime che fedele allo statuto della Fratellanza Musulmana aveva innanzitutto modellato la Costituzione alla legge Coranica. Eppure Stati Uniti ed Europa continuano a guardare con diffidenza al presidente Abdel Fattah al Sisi colpevole, nel rimuginio autolesionista delle anime belle occidentali, di contrapporsi con eccessiva energia alla rinascita della Fratellanza Occidentale. O persino di usare i bombardieri per fermare i decapitatori che nella vicina Libia massacrano i cristiani copti.
Quel generale minacciato dalle milizie jihadiste arroccate nel Sinai e dalle propaggini libiche dello Stato islamico, non viene interpretato dall’Occidente come una risorsa in grado di salvare l’Egitto dalla minaccia del Califfato, ma come un alleato imbarazzante e impresentabile. All’Occidente poco importa che quel generale sia cresciuto in un Egitto dove la Fratellanza Musulmana ha aperto la strada, in 85 anni di predicazione, alla nascita del fondamentalismo terrorista e all’emergere di personaggi come il capo di al Qaida, Ayman al Zawahiri. Per un’Europa e un’America neghittosamente abbarbicate a princìpi distanti anni luce dalla cruda realtà mediorientale, quel generale è un alleato inaccettabile perché colpevole di essere andato al potere con un colpo di stato. E poco importa che quel golpe, fondamentale per impedire l’affermazione di un regime islamista, sia stato salutato con entusiasmo da gran parte dei suoi connazionali.

L’argine del Colonnello
Quella diffidenza nei confronti del generale al Sisi è figlia della stessa malafede che nel 2011 spaccia l’eliminazione di Muhammar Gheddafi come un’affermazione di libertà e democrazia. Grazie al Colonnello la Cirenaica, terreno di coltura per migliaia di combattenti jihadisti transitati dai campi di battaglia afghani a quelli iracheni, era rimasta stabile per quasi 40 anni. Grazie a lui migliaia di combattenti tuareg del Mali – assoldati come mercenari nella guardia personale – venivano tenuti lontani dal contagio qaedista diffusosi nell’area del Maghreb tra la metà degli anni Novanta e il 2010. Ma il bizzarro realismo di Gheddafi contrastava con le utopie di chi in Europa e Stati Uniti s’illudeva che alleandosi con il Qatar e la Fratellanza Musulmana sarebbe nato l’islam democratico. Così in Iraq, Siria e Libia è nato invece il Califfato. E a noi non resta che rimpiangere l’indispensabile presenza di tre insostituibili dittatori.

Foto Saddam Hussein da Shutterstock

Tags: al-sisibashar al-assadCaliffatoEgittogheddafiHosni MubaraklibiaMusulmanisaddam husseinStato Islamico
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