Accordo Europa-Cina: patti chiari, amicizia forse

Di Leone Grotti
17 Febbraio 2021
Con l’accordo sugli investimenti Bruxelles ha regalato a Pechino «una gigantesca vittoria». L’intesa (si fa per dire) porterà in futuro pochi vantaggi solo alla Germania. E subito grosse grane all’Europa con l’America di Joe Biden
Xi Jinping con Angela Merkel in visita a Berlino

Quando nel novembre 2013 l’allora presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e l’ex presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, volarono a Pechino per porre le basi per un accordo sugli investimenti con la Cina, non pensavano certo che ci sarebbero voluti sette anni e 35 incontri per finalizzarlo. Soprattutto, mai si sarebbero immaginati che l’accordo avrebbe messo in crisi i rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti, tantomeno che sarebbe stato festeggiato in Cina (e deplorato in Europa) come una «gigantesca vittoria diplomatica» e geopolitica per il Dragone, ottenuta concedendo poco o niente alla controparte. 

La fine delle trattative sull’Accordo completo sugli investimenti (Cai) è stata annunciata il 30 dicembre. Angela Merkel considera l’intesa una «vittoria strategica» per l’Europa e la ciliegina sulla torta al semestre tedesco di presidenza del Consiglio dell’Unione, che si è concluso il giorno successivo. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, che si sarebbe insediato solo due settimane dopo alla Casa Bianca, ha tentato fino all’ultimo di frenare Bruxelles, dichiarando che il nuovo governo americano «gradirebbe consultarsi con i nostri partner europei sulle comuni preoccupazioni per la condotta economica della Cina». Come a dire: non agite da soli. Ma il suo appello è rimasto inascoltato, la cancelliera ha tirato dritto, sostenuta dal francese Emmanuel Macron, l’unico leader europeo invitato e presente al momento della definizione dell’accordo.

Nel nome del libero mercato

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha parlato di «accordo storico» e per diversi motivi lo è davvero. Il Cai fornisce infatti un’unica cornice legale per gli investimenti tra le parti, andando a sostituire i 26 accordi bilaterali attualmente in vigore tra Cina e paesi europei. Arrivare a un’intesa con il Dragone è fondamentale dal momento che, secondo i dati Eurostat 2019, l’interscambio tra Unione Europea e Cina vale 560 miliardi ma è tutto a vantaggio di Pechino: la bilancia commerciale segna un deficit per i paesi europei di ben 164 miliardi. Inoltre, lo scoppio della pandemia ha contribuito a rendere la Cina il primo paese al mondo per investimenti diretti, superando gli Stati Uniti, ma quelli europei negli ultimi 20 anni sono stati appena 140 miliardi. Nel prossimo futuro il Dragone sarà sempre più importante, visto che è l’unica potenza economica mondiale a essere uscita dalla pandemia con un incremento del Pil (+2,3 per cento).

Non è insomma difficile capire perché, con i suoi 1,4 miliardi di potenziali consumatori, il mercato cinese faccia gola a tutti ma entrarci è sempre stato arduo a causa dell’ostruzionismo del governo comunista. L’accordo promosso da Bruxelles mira proprio a sciogliere alcuni dei nodi che rendono impari la concorrenza nell’Impero di mezzo per quanto riguarda la reciprocità di accesso al mercato, la parità di condizioni per tutti gli operatori e la condivisione di regole su clima, salute e lavoro. Attualmente gli investimenti europei in Cina sono diretti per la maggior parte nel settore manifatturiero, in particolare quello automobilistico (28 per cento) e della produzione di materiali e componenti di base (22 per cento). 

Valori sulla carta

L’accordo obbliga la Cina a garantire che le imprese statali, che contribuiscono per oltre il 20 per cento al Pil nazionale, prendano decisioni su come agire nel mercato interno solo in base a ragioni commerciali, senza discriminare le aziende europee quando devono acquistare e vendere prodotti o servizi. Il Dragone dovrà anche indagare e condividere le informazioni sulle mosse delle aziende statali quando esse si comportano in modo discriminatorio verso le imprese europee. Pechino non potrà più neanche elargire sussidi poco trasparenti a vantaggio dei propri colossi, escludendo gli attori stranieri, soprattutto nel settore dei servizi, né imporre trasferimenti forzati di tecnologia e dovrà pure eliminare l’obbligo per le aziende europee di entrare nel mercato cinese in joint venture con un gruppo locale. In alcuni settori sarà infine cancellato il tetto massimo di investimenti. Secondo i negoziatori europei, si tratta di concessioni «senza precedenti» da parte del governo cinese.

Inoltre, sottolinea Bruxelles, Pechino è stata «costretta» a instradarsi sulla via dei «valori» europei: l’accordo prevede infatti che la Cina si impegni a rispettare i diritti dei lavoratori sanciti dalle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e a ratificare alcune delle convenzioni più importanti, soprattutto quella che vieta il lavoro forzato, oltre che a implementare l’accordo di Parigi sul clima. La Cina, che ha già pieno accesso al mercato europeo, ottiene in cambio la possibilità di entrare in nuovi ambiti del settore manifatturiero e in quello delle rinnovabili.

Sulla carta, l’entusiasmo di Bruxelles è più che comprensibile. Ma il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli e le ragioni che hanno spinto molti analisti a criticare l’Unione Europea non sono solo e soltanto di ordine etico. Come spiega l’esperto Nick Marro in un’approfondita analisi per l’Unità di intelligence dell’Economist, leader mondiale nel settore, l’Europa vende per «vittorie» delle conquiste già acquisite e approvate da tempo. La liberalizzazione del settore automotive in Cina, ad esempio, è iniziata nel 2018 e le aperture riguardanti i servizi finanziari «sono in vigore almeno dal 2015». In ambito sanitario, gli investitori stranieri possono aprire e possedere interamente ospedali in alcune delle città principali della Cina (Pechino, Shanghai, Tianjin, Guangzhou e Shenzhen) già dal 2014. 

«È da ingenui crederci»

Non è chiaro inoltre, continua Marro, come il divieto di imporre trasferimenti di tecnologia «differisca da quello già esistente» e con quale meccanismo concreto le aziende statali «possano essere costrette a cambiare il loro atteggiamento», visto che le loro decisioni sono imposte dal governo. L’accordo parla di un «meccanismo di monitoraggio a livello politico» ma, sottolinea Marro, basta guardare la storia recente per rendersi conto che «la Cina considera ogni cornice per monitorare le proprie attività come una violazione di sovranità».

Ci sono poi due ulteriori problemi che riguardano l’ambito economico. Tra le pieghe dell’accordo, nota l’Ispi, c’è una clausola che permette alle parti di «tutelare unilateralmente gli interessi nazionali attraverso meccanismi di screening ad hoc degli investimenti in entrata». Inoltre la Cina ha approvato una nuova legge il 19 dicembre 2020, entrata in vigore il 18 gennaio, sulla revisione cui il governo può sottoporre qualunque investimento che potrebbe «minacciare la sicurezza nazionale». A prescindere dal Cai, gli investimenti possono essere bloccati preventivamente per oltre 100 giorni ed eventualmente respinti. Ecco perché gli analisti insistono sul fatto che il Cai porterà «benefici limitati» alle aziende europee che vogliono investire in Cina.

Al di là degli aspetti puramente commerciali, il punto di fondo è però un altro: la Cina è davvero credibile quando prende un impegno a livello internazionale e l’Unione Europea riuscirà a far rispettare a Pechino le promesse fatte? Il principale analista del Financial Times sui temi di politica estera, Gideon Rachman, non ha dubbi: «L’Europa è ingenua a pensare che la Cina rispetterà l’accordo che ha firmato. L’Unione sostiene che l’accordo “disciplinerà il comportamento” delle imprese statali cinesi, ma è dal 2001, da quando è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio, che la Cina promette di farlo. E ora fa passare per concessioni nuove ciò che offre ininterrottamente da 20 anni. Per quanto riguarda poi le promesse sulle convenzioni internazionali sugli standard del lavoro, viene da ridere». In effetti, nel testo non è stata inserita una data entro la quale la Cina dovrebbe firmare le convenzioni. Shi Yinhong, professore di relazioni internazionali e direttore del Centro di studi americani dell’università Renmin, se l’è cavata con una battuta: «La Cina non rispetterà mai l’accordo su questo punto. Pensate davvero che permetterà la nascita di sindacati liberi?».

«Un errore madornale»

La battuta non fa ridere, ma è ben fondata. Perché, si chiedono in tanti, la Cina che ha appena violato un trattato internazionale firmato con il Regno Unito sull’autonomia di Hong Kong, dovrebbe rispettare quello sugli investimenti con l’Unione Europea? In base agli accordi, il governo cinese doveva garantire ampia autonomia all’ex colonia britannica fino al 2049. Ma a luglio ha inserito illegalmente nella mini Costituzione di Hong Kong la legge sulla sicurezza nazionale, che nel giro di pochi mesi ha portato a questi risultati: soppressione sostanziale della libertà di espressione, di riunione e di stampa, annullamento delle elezioni, divieto per i politici pro democrazia di candidarsi, dimissioni di tutti i deputati dell’opposizione, arresto di massa dei partecipanti alle primarie del fronte democratico, incarcerazione di attivisti e magnati dell’editoria.

Il caso di Hong Kong non è unico nel suo genere. La Cina promette di abolire lo sfruttamento dei lavori forzati e di migliorare le condizioni dei lavoratori, ma a partire dal 2017 ha incarcerato nello Xinjiang senza processo almeno 1,8 milioni di musulmani uiguri, torturandoli e costringendoli a lavorare gratuitamente per le aziende statali locali con la scusa di «reinserirli nella società». Come può Bruxelles davvero credere che Pechino porrà fine a tutto questo quando nel 2013 aveva annunciato di aver abolito i campi di rieducazione attraverso il lavoro salvo poi riaprirli pochi anni dopo? La stessa Unione Europea che giustamente si mostra intransigente con Vladimir Putin per il trattamento che riceve in Russia l’oppositore Alexei Navalny, come può offrire su un piatto d’argento alla Cina un riconoscimento internazionale così importante quando nelle carceri cinesi languono centinaia e centinaia di Navalny?

Lord Chris Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, all’indomani dell’annuncio dell’accordo commerciale ha scritto che «si tratta di un errore strategico madornale». Se l’accordo verrà ratificato «l’ambizione dell’Europa di diventare un serio attore economico e politico sarà considerata come una barzelletta. L’Unione Europea sputa in faccia ai diritti umani e mostra di avere una visione delirante dell’affidabilità in campo internazionale del Partito comunista cinese».

«Gli Stati Uniti sono sconvolti»

Bruxelles però non ci sta a passare per potenza irresponsabile e informalmente un diplomatico europeo ha fatto notare al Financial Times che la Commissione ha semplicemente preteso dalla Cina «le stesse condizioni fissate per gli Stati Uniti» nell’accordo voluto da Donald Trump ed entrato in vigore il 14 febbraio 2020. Ma proprio il riferimento alla “Fase uno” dell’accordo tra Cina e Stati Uniti non è affatto di buon auspicio. Infatti, secondo un bilancio stilato dal Peter Institute for International Economics (Piie), Pechino a un anno dalla firma non ha rispettato gli accordi. Il piatto forte dell’intesa era costituito dall’impegno cinese, per riequilibrare la bilancia commerciale, di acquistare entro la fine del 2020 dall’America 63,9 miliardi di merci in più rispetto al 2017. Per raggiungere l’obiettivo, la Cina avrebbe dovuto acquistare un totale di 173,1 miliardi di beni, ma a conti fatti il saldo si è fermato a 100 miliardi, appena il 59 per cento di quanto pattuito. 

Con l’Australia il Dragone si è comportato anche peggio. Nel 2015 i due paesi hanno raggiunto un accordo per la riduzione reciproca dei dazi su decine di beni. Ma quando a maggio dell’anno scorso Canberra ha cominciato a criticare Pechino per il modo in cui ha affrontato la pandemia di Covid-19, il governo comunista ha risposto aumentando i dazi sulle merci australiane fino al 200 per cento, in aperta violazione con il trattato firmato. Perché, si chiedono gli osservatori, la Cina dovrebbe comportarsi ora in modo diverso con l’Unione Europea?

Secondo un retroscena pubblicato da Politico, è Angela Merkel che ha voluto bruciare le tappe a tutti i costi nonostante le criticità. Il Cai, infatti, «beneficia in particolar modo il settore automotive e manifatturiero» della Germania. Anche la Francia, e in parte l’Olanda, otterranno notevoli benefici, soprattutto nel settore ospedaliero. Per altri paesi i vantaggi non sono così evidenti e infatti Italia, Spagna e Polonia hanno mal digerito l’iniziativa franco-tedesca. Ivan Scalfarotto, allora segretario agli Esteri, commentò così al Corriere della Sera l’accordo all’indomani dell’annuncio: «Sul piano politico viene dato un segnale di credito alla Cina in un momento di preoccupazioni importanti sui diritti umani. Questa decisione crea un problema». Inoltre l’inspiegabile presenza al tavolo finale di Macron, invitato dalla Merkel a dispetto di tutti gli altri leader europei, «è irrituale e ingiustificata, segna una sconfitta per noi italiani». 

Dichiarazioni di questo tipo fanno comprendere che cosa guadagna realmente la Cina dalla firma dell’accordo. Se da un lato ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con Bruxelles, suo principale partner commerciale, dall’altro vuole indebolire l’Unione Europea dividendola al suo interno e staccandola dagli Stati Uniti. Il fatto che l’Europa abbia ignorato i messaggi americani che le chiedevano di aspettare ad apporre la firma sul Cai è stato festeggiato a Pechino come una grande vittoria. Matthew Pottinger, il viceconsigliere sulla Sicurezza nazionale di Trump, ha criticato senza mezzi termini Bruxelles: «Sia i democratici che i repubblicani in America sono rimasti sconvolti dall’atteggiamento europeo». Il fastidio è reciproco: un diplomatico tedesco ha rivelato alla stampa britannica che «il rapporto con il nuovo governo americano è iniziato male. Non dovevano criticare l’accordo. Pensano di poterci dire cosa dobbiamo fare?». 

Tutto si gioca a Strasburgo

È su questa prima importante frattura tra Unione Europea e amministrazione Biden che la Cina vuole insistere gettando benzina sul fuoco. «I leader europei dovrebbero aver capito che gli interessi americani sono diversi da quelli europei», ha scritto ad esempio Cui Hongjian, specialista del China Institute of International Studies, think-tank affiliato al Partito comunista cinese. Grazie all’accordo, scriveva in un recente commento il Quotidiano del popolo, megafono del Partito, «Biden capirà che deve assumere una strategia più morbida e costruttiva verso la Cina».

Resta ora da capire se il Parlamento europeo ratificherà il Cai, permettendo che entri in vigore, o se deciderà di boicottarlo. Il finale non è scontato, almeno a giudicare dalle parole del tedesco Reinhard Bütikofer, a capo della delegazione del Parlamento europeo per i rapporti con la Cina: «È ridicolo vendere questo accordo come un successo. Abbiamo agito in solitaria, proprio come ha fatto Trump negli ultimi anni. Qualcuno mi sa spiegare perché prima l’Unione Europea, che ama fregiarsi di essere portabandiera del multilateralismo, ha detto che voleva coordinarsi con Biden e poi ha chiuso l’accordo prima del suo insediamento?». «Valuteremo molto bene se ratificare l’accordo», ha aggiunto Kathleen Van Brempt, europarlamentare del gruppo Socialisti e democratici. «L’accesso al mercato è importante, è vero, ma anche i diritti umani e dei lavoratori lo sono».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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