Preoccuparsi di Facebook invece che del bambino. L’ipocrisia sull’aborto illegale in Nebraska
Vista da Forbes, quella di Celeste Burgess e di sua madre Jessica non è solo la storia di una ragazza di Norfolk aiutata dalla madre da procurarsi un aborto oltre i limiti di legge e pertanto incriminata dalla polizia del Nebraska. È la storia di una donna incriminata perché Facebook l’ha incastrata consegnando le “prove” del suo reato alla polizia: un fitto scambio di messaggi privati in cui madre e figlia si organizzano per sbarazzarsi della «cosa».
Quella «cosa» è un bambino
La «cosa» è un bambino in pancia di quasi 24 settimane. Per i giornali la vicenda dimostra cosa accade alle donne nell’America “post Roe”, annientata dalla sentenza della Corte Suprema. Un’America piena di Stati pronti a tutto – anche a sequestrare i messaggi privati degli utenti social – per accanirsi e perseguitate le donne prochoice: Politico ricorda, dati del gruppo abortista National Advocates for Pregnant Women alla mano, che dal 2006 al 2020 si contano 1.331 arresti e incarcerazioni per reati legati alla gravidanza. Eppure, la terribile vicenda di Celeste e Jessica Burgess mostra ben altro.
In Nebraska la legge vieta gli aborti dopo le 20 settimane dal 2010. Celeste avrebbe dovuto partorire il 3 luglio e viene indagata dopo una “segnalazione” ad aprile, ben prima della sentenza della Corte Suprema. Agli inquirenti spiega che non c’è nessun bambino perché, sostiene, ha dato alla luce un figlio morto mentre faceva la doccia una notte di aprile. La ragazza spiega di aver svegliato la madre per avvisarla dell’aborto “spontaneo” e, dopo avere riposto il bambino in un borsone, di avere guidato con lei fino alla proprietà dei genitori di un 22enne, a nord della città, che le ha aiutate a seppellire il corpo.
Il corpicino e i messaggi: «Bruceremo le prove»
Il 29 aprile le autorità riesumano il corpicino. E inorridiscono: i rapporti depositati in tribunale parlano di un bambino di circa 24 settimane e “ferite da calore”: qualcuno ha cercato di bruciare il bambino. Ne avranno riscontro dopo avere avuto accesso, con un mandato di perquisizione, agli account di Jessica e Celeste su Facebook: la madre spiega alla figlia come assumere le pillole che è riuscita a procurarle per indurre l’aborto, Celeste dice che non vede l’ora «togliersi quella cosa dal suo corpo» e di «rimettermi i jeans», entrambe concordano sul «bruciare le prove in seguito».
Qui i giornali si concentrano sul tema mandato: le due donne (Celeste nel frattempo è diventata maggiorenne) vengono accusate a giugno di rimozione, occultamento e abbandono di cadavere umano, occultamento della morte di un’altra persona e false dichiarazioni. Ma la ragazza aveva denunciato un “aborto spontaneo”: perché non credere alla sua versione e continuare a indagare e richiedere a Facebook l’accesso ai loro account?
«Indagavano su un bimbo nato morto, non su un aborto»
Il portavoce di Meta, Andy Stone, si è affrettato a dichiarare su Twitter che prima della sentenza della Corte Suprema in nessun mandato di perquisizione presentato dalle autorità per indagare sulle Burgess era stato menzionato l’aborto, bensì una indagine «sul caso di un bambino nato morto, bruciato e sepolto. Non su una decisione di abortire» (un mese prima Mark Zuckerberg aveva promesso pubblicamente di proteggere le persone che avrebbero cercato di abortire implementando il sistema di crittografia che avrebbe «mantenuto al sicuro» le loro chat private).
Dopo la sentenza dei giudici, Jessica Burgess viene incriminata per altri due reati: per aver eseguito o tentato di eseguire un aborto durante una gravidanza oltre le 20 settimane e di averlo fatto senza alcuna licenza medica. Accuse che il procuratore della contea di Madison, Joseph Smith, assicura di non aver mai presentato in 32 anni di carriera. «Non credo di aver mai seguito un caso come questo. Di solito, gli aborti vengono eseguiti negli ospedali e coinvolgono i medici, ma in questo caso non è accaduto niente del genere».
Anche ucciso con i guanti bianchi resta un bambino
Avete visto un bambino di quasi 24 settimane? Scalcia, sbadiglia, fa pisolini. È un neonato di mezzo chilo, se nasce così prematuro deve essere rianimato. Non somiglia neppure lontanamente a una “cosa”, è un bambino. Sarebbe stato un bambino anche senza la sentenza della Corte Suprema. È un bambino mentre viene bruciacchiato e seppellito dalla mamma e dalla nonna in un campo, sarebbe stato un bambino anche se fosse stato smembrato e poi smaltito dai medici con guanti bianchi in ospedale.
Sarebbe stato un bambino anche se non ci fosse stato nessun limite per abortire in Nebraska: il suo corpicino riesumato si chiama “cadavere”, non rifiuto organico o ospedaliero, averlo seppellito è occultamento di cadavere. Sarebbe stato un bambino anche in presenza di una legge che autorizzasse le donne ad ammazzarlo fino al nono mese. Non è una sentenza della Corte Suprema a decidere che cosa è una “cosa” e cosa è un bambino.
Editoriali sui diritti e creature di carne, ossa e sangue
Celeste e Jessica non si ricordano nemmeno che giorno se ne sono sbarazzate: sono risalite alla data consultando, appunto, i messaggi, su Facebook. I giornali liberal guardano le due donne e ci vedono accanimento giudiziario, persecuzione, complicità delle Big Tech dalla vita impossibile negli stati a guida repubblicana, diritti in pericolo. Vedono l’incarnazione di un loro editoriale. Anche il Corriere scrive della vicenda parlando di “una donna incinta da oltre 20 settimane” e concludendo che «la storia di Celeste ci racconta quanto i giganti della tecnologia non siano ancora preparati a contrastare le possibili conseguenze che l’annullamento della Roe vs Wade e la loro cessione di dati potrebbero avere sulla vita delle donne che cercheranno di abortire in Stati in cui l’interruzione di gravidanza è diventata illegale».
Nemmeno a sacco aperto e cadavere riesumato riescono a riconoscere in quella “cosa”, non diciamo i diritti, ma almeno a chiamarla – creatura di carne, ossa, sangue sporca di terra – col suo nome: bambino.
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