![Vulnerabilità come risorsa](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/vulenrabilita-345x192.jpg)
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Poche scene risultano più simbolicamente potenti e dirompenti dei nordafricani che, bandiera della Tunisia in mano e assiepati sulla statua di Vittorio Emanuele II in piazza del Duomo a Milano, si lasciano andare a cori e insulti contro l’Italia e contro la polizia nella notte di San Silvestro.
I video circolano e immortalano il paradosso di una città in cui immigrati e maranza, cioè individui che hanno acquisito la cittadinanza italiana ma evidentemente non si sentono figli di nessuna terra, inneggiano ad Allah, sbevacchiano, si scontrano tra opposte bande, si lanciano in cori osceni e soprattutto inveiscono contro il luogo in cui vivono.
In Francia questo cortocircuito è noto da tempo, da noi è relativamente nuovo ma non meno preoccupante: perché in spregio a qualunque senso del ridicolo, nella stessa città salutista, eco-friendly, immaginata da Sala a misura di mobilità sostenibile e con attenzione al fumo, il cui divieto ormai è stato esteso anche all’aria aperta, ecco avanzarsi un’orda che si consolida e si cementifica attorno parole d’ordine identitarie, pseudo-religiose e con bandiere a garrire nel freddo vento di San Silvestro, nemmeno fosse una partita di calcio o peggio ancora si trattasse dei tempi supplementari delle guerre di religione.
Pseudo-religiose perché quell’Allah akbar risuonato tonante nella piazza, accompagnato da insulti alle autorità e alle forze dell’ordine e all’Italia tutta, appare come la riaffermazione di una qualche identità per giovani che si sentono privi di qualunque collegamento con la realtà sociale e allora eccoli trincerarsi dietro le parole forti, oleografiche, di una religione i cui precetti, tra fumo, droga, alcolici, finiscono poi per violare sistematicamente.
Ma la coerenza teologica poco importa, perché qui siamo davanti una rivendicazione, una attestazione di presenza che nelle radici islamiche vede e predica un immaginifico ritorno alla casa dei padri, quella stessa casa dove è assai lecito pensare non li farebbero nemmeno tornare.
L’ingratitudine e il disprezzo per la terra che ospita, e dico così perché sentendo l’incespicante italiano dell’orda propendo per immigrati piuttosto che per figli italianizzati di stranieri, è ormai un grande classico delle città europee, dove la primaria preoccupazione di stampa, politica e opinione pubblica davanti episodi come questo, o anche ben peggiori, spesso sconfinanti nell’autentico terrorismo, è cercare di nascondere tutto frettolosamente sotto il tappeto.
D’altronde, praticamente nelle stesse ore, a Rimini un egiziano, con riconoscimento dello status di protezione internazionale e Corano in tasca, accoltellava quattro passanti venendo poi neutralizzato da un carabiniere, finito indagato al solito per eccesso di legittima difesa, come se adempiere il proprio dovere, cioè evitare che un tizio ammazzi a coltellate degli innocenti e ignari cittadini, sia atto meritevole dell’automatismo inquisitorio.
No, non è un atto a garanzia del carabiniere. E questa idea deve finire perché ha un unico esito pensabile, cioè far sì che le forze dell’ordine smettano, atterrite da processi, sanzioni, costi gravosi di avvocati, stigma sociale, di fare ciò che da loro funzione devono fare, ovvero garantire l’ordine e la sicurezza.
Se un appartenente alle forze dell’ordine assiste all’accoltellamento multiplo di cittadini da parte di un esagitato, e si trova a dover gestire una situazione in cui la vita di molti è concretamente a repentaglio, cosa dovrebbe fare mai in quei frangenti? Effettuare calcoli mentali di proporzionalità tra pericolo e peso della sua reazione, mentre attorno a lui la gente sanguina, urla, invoca aiuto e protezione? Portarsi una copia di Dei delitti e delle pene e farne dono all’assalitore?
Non viene da pensare, ai solerti fustigatori delle svolte securitarie, a quelli sempre in prima fila per stigmatizzare il comportamento delle forze di polizia, che in una comunità priva di senso di sicurezza e incapace di vedere nelle forze dell’ordine un presidio concreto ed efficace avanzerà la forte, fortissima tentazione di farsi giustizia da soli?
Mentre a New Orleans, dall’altra parte dell’oceano, un terrorista con tanto di bandiera dell’Isis al seguito commetteva una strage e la stampa non trovava di meglio, all’inizio, che dipingerlo come ex soldato, estremista di destra, poi rifluito, davanti l’evidenza, a “convertito all’Islam”.
Una sequenza pietosa di nascondimenti e giochini semantici, di convenienti omissioni, il famoso “uomo” che contraddistingue i titoli di queste notizie o addirittura la assenza totale e fantasmatica del soggetto, non sia mai dover constatare l’ovvio.
Anche la notizia milanese, pur certo molto, molto meno grave delle altre, è relegata in un cantuccio. Anzi, una parte non indifferente dell’opinione pubblica e del ceto intellettuale accorre a solidarizzare coi poveri ragazzi ingiustamente divenuti oggetto di attenzioni poliziesche. E la sinistra trova un nuovo nemico giurato: il Daspo urbano.
I fatti di Milano su alcuni giornali e in alcune bocche e in alcune menti esistono non per stigmatizzare i cori, la rissa tra opposte fazioni di nordafricani, gli insulti, quanto per prendere una ferrea posizione contro la torsione securitaria imposta dal governo Meloni.
D’altronde veniamo da caldi giorni di mobilitazione contro il ddl sicurezza, che l’attore Elio Germano, in fase militante, ha però ribattezzato decreto-legge, evidentemente digiuno della differenza tra un disegno di legge e un decreto-legge.
Però le misure adottate a Milano e che hanno visto comminare una cinquantina di provvedimenti di allontanamento, ovvero ciò che confidenzialmente suole definirsi Daspo urbano, con il ddl sicurezza non c’entrano niente.
Si tratta di provvedimenti adottati in forza della normativa voluta e approvata dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, ministro di un governo di centrosinistra. Abbiamo quindi la sinistra che protesta contro se stessa, dovendo escogitare la formula delle misure che “piacciono alla destra”, cercando così di isolare Minniti e di dipingerlo come un corpo estraneo nel ventre di un governo di sinistra.
Da anni ormai la sicurezza urbana e la sicurezza integrata, in una logica multi-livello, sussidiaria e di partecipazione, vedono un ruolo sempre più centrale della territorializzazione degli interventi e un coinvolgimento sempre più esteso dei sindaci e delle amministrazioni comunali.
Le amministrazioni non hanno mai dato prova di insofferenza concettuale o costituzionalmente orientata di queste misure, e d’altronde corre l’obbligo di rammentare come le stesse siano state ritenute conformi a Costituzione dalla stessa Corte costituzionale, cui la questione era finita davanti.
Anche qui: soliti distinguo scoperti solo ora, ora che il Daspo urbano, che poi non si chiama così ma così è conosciuto per motivi didascalici avendo ripreso alcuni elementi del Daspo vero e proprio, cioè quello sportivo, viene applicato su giovani che, ci comunica Il Fatto Quotidiano, non hanno nemmeno commesso reati.
Bè, l’idea del Daspo urbano da ormai oltre sette anni è esattamente quella; un giudizio prognostico di pericolosità sociale, pur non integrante per forza di cose gli estremi del reato, che porta al divieto di spostamento e di stabilimento in una data area cittadina.
La ragione della norma, per quanto possa apparirci discutibile e infatti se ne discute da tempo, è cercare di contrastare fenomeni molesti che avvengono in precise aree di grandi centri urbani.
Ed è curioso che molti scoprano solo ora, ora che i provvedimenti vanno a incidere su maranza o “ragazzi”, tanto per usare il pietoso trucchetto linguistico caro a molta stampa, l’esistenza di uno strumento che fino a ieri benedicevano e invocavano con draconiana severità ogni volta che l’ubriacone molesto di turno gli irrorava di urina puzzolente il portone della bella casa di trecento metri quadrati nel cuore del Centro storico.
Perché il Daspo urbano non è mai stato pensato per combattere fenomeni realmente, e pesantemente, criminali, ma piuttosto per contrastare elementi anomici, di disagio.
Possiamo discutere e criticare l’idea di contrastare il disagio con la sanzione amministrativa, ma di certo è assai ipocrita scoprire la questione solo ora.
Come grandemente ipocrita è snocciolare solo adesso e per convenienza tutto l’elenco solito delle libertà costituzionali che ne sarebbero violate, ma non per la Corte costituzionale, dopo che per anni, anni, ci siamo spostati dovendo compilare scartoffie e controllando i colori delle Regioni, altro che “zona rossa” che ora tanto indigna i benpensanti.
E se non voglio certo paragonare il momento pandemico nella sua fase più virulenta alla sicurezza urbana, voglio però stigmatizzare l’evidenza palese, lampante, di misure emergenziali che limitavano in maniera molto più radicale di quanto faccia il Daspo urbano la libertà di movimento, la libertà di impresa, la libertà e il diritto al lavoro, e che sono rimaste vive, pulsanti, operative, limitative, contorte, geologicamente sedimentate le une sulle altre per anni, quando l’emergenza era rimasta tale solo per formalismo cartolare. Nel silenzio tombale di quelli che oggi, invece, piagnucolano.
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Ricordiamoci dei “mandiamo i carabinieri casa per casa” e “sfamiamoli col piombo” riservate a chi non obbediva a Speranza e Locatelli. Per queste orde di barbari invece solo parole al miele e giustificazioni a oltranza.