Meno Stato, più società, più famiglia. Da re Guglielmo d’Olanda una lezione di welfare per l’Italia
In Olanda è andato in onda il sogno delle giovani generazioni. L’annuncio del divorzio dal welfare state tradizionale rappresenta, infatti, la principale aspirazione di riforma statale cui possono ambire coloro che hanno ereditato le politiche del passato, senza poterle in alcun modo modificare. Politiche fatte solo di spesa pubblica e di diritti che, di fatto, sono risultati insostenibili dalla fiscalità collettiva, nell’assurda chimera di un modello sociale che tutto può. Un modello dove lo Stato si prende cura dei cittadini “dalla culla alla tomba”. Magari capitasse anche a casa nostra di accendere un giorno la televisione e ascoltare un discorso programmatico da parte del capo dello Stato o del governo per riformulare l’articolo 38 della Costituzione! Anche se, a dire il vero, basterebbe più semplicemente una sua corretta interpretazione.
WELFARE STATE ADDIO. Tornando in Olanda, l’annuncio è stato dato la scorsa settimana. In occasione del suo primo discorso dal trono per l’approvazione del bilancio di previsione, il re Guglielmo Alessandro ha spiegato che a prendere il posto dello «Stato sociale» sarà una «società di partecipazione» nella quale i cittadini, i privati, dovranno investire per creare delle reti di assistenza, che si sostituiranno allo Stato, al pubblico. «Il classico welfare state della seconda metà del ventesimo secolo – ha precisato il re – ha portato ad accordi che sono diventati insostenibili nella loro forma attuale». Inoltre, ha aggiunto, le persone «vogliono fare le loro scelte, organizzarsi la loro vita e prendersi cura l’una dell’altra». La via da seguire per le riforme, pertanto, sarebbe già tracciata in ambiti come, per esempio, quelli della sicurezza sociale e dell’assistenza a lungo termine.
PIÙ BENESSERE PER TUTTI. È quest’ultimo un aspetto che avvicina molto il caso olandese alla nostra società; dove soprattutto le famiglie, ma anche enti ed associazioni – tutto il mondo del no profit, insomma – sono di gran lunga i principali erogatori di servizi, cura e assistenza materiale al nostro welfare state pubblico-statale, ma in maniera totalmente anonima, nascosta e silenziosa. Un modello di welfare che, tuttavia, spende 470 miliardi di euro l’anno (Istat, 2011): due terzi dei quali in previdenza (67,2 per cento), un quarto in sanità (24,9 per cento) e la restante parte in assistenza (7,9 per cento). Motivo per cui un cambio di passo nella direzione indicata dal re dei Paesi Bassi avrebbe due benefici: valorizzare l’autenticità di una risposta umana ai problemi, da un lato, e liberare risorse finanziarie, dall’altro. Con un conseguente indotto in termini di vantaggi a favore della collettività attraverso il potenziamento degli stessi servizi e una spinta al rilancio del sistema economico. Sostenere una famiglia che accudisce, per esempio, un anziano o un disabile è, infatti, più “efficiente” che finanziare un posto letto in ospedale. E aiutare la previdenza privata libera risorse che sono il carburante dello sviluppo economico.
IL CORAGGIO DI CAMBIARE. Di riforme ne abbiamo viste tante negli ultimi anni, ma di benefici pochi o nessuno. Talmente tante da avere ingarbugliato la matassa delle regole (a scapito dei cittadini), senza però portare efficaci risultati in termini né di riduzione della spesa pubblica né di miglioramento delle prestazioni offerte. Anzi, le prestazioni sono risultate fortemente penalizzate per un conto spese tutto a carico dei giovani di oggi (si veda ad esempio alla voce “sussidi ai disoccupati”: Aspi, Cig, eccetera); mentre per vedere uno spicciolo di riduzione della spesa pubblica occorrerà aspettare almeno 20-30 anni quando – nemmeno a farlo apposta – dovranno andare in pensione i giovani di oggi, i quali avranno la sorpresa di trovarsi tra le mani una pensione dimezzata rispetto ai loro papà. Ma questa è l’Italia dove – si sa – “riformare” è un verbo che da sempre si coniuga con “preservare”, dove si cambia senza mai ritoccare nulla del presente (o del passato) e si decide solo per il futuro, per coloro cioè che non possono porre obiezioni.
MENO STATO, PIÙ PRIVATO. In Italia, divorziare dal tradizionale welfare state avrebbe il risultato di migliorare l’efficienza della rete di servizi ai cittadini e di rendere più giusto un patto intergenerazionale tutt’ora squilibrato. Ma per farlo, servirebbe un nuovo modello sociale con “meno Stato” e più “privato”. Un modello come quello descritto, all’inizio degli anni Trenta, a ridosso della grave crisi del ’29 (da più parti paragonata a quella attuale), da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno. Un’enciclica dove il Papa rilegge il passato alla luce di una situazione economico-sociale in cui all’industrializzazione si era aggiunta l’espansione del potere dei gruppi finanziari. L’enciclica ammonisce sul mancato rispetto della libertà di associazione e ribadisce i princìpi di solidarietà e di collaborazione, quali soluzioni per superare i conflitti sociali. Ma, soprattutto, afferma che lo Stato, nei rapporti con il privato, deve applicare il “principio di sussidiarietà”: principio che è divenuto poi un elemento permanente della dottrina sociale cattolica.
LEZIONE OLANDESE. È proprio al principio di sussidiarietà che occorre guardare oggi, come documenta il caso della “laicissima” Olanda. Porre la persona al centro di tutto: è questa la sfida che la politica deve ingaggiare se vuole andare verso un futuro fuori da una crisi che, oltre a essere finanziaria ed economica, proprio come nel ’29, è anche una crisi di valori. Come, peraltro, aveva già spiegato anche l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI. È praticando la sussidiarietà e la solidarietà, infatti, che si tende al vero bene comune. La sussidiarietà ci dice che è impossibile promuovere la dignità della persona se non prendendosi cura della famiglia, dei gruppi, delle associazioni, delle realtà territoriali locali; in breve, di quelle espressioni aggregative di tipo economico, culturale, sportivo, ricreativo, professionale, politico, sociale alle quali le persone danno spontaneamente vita, ossia la società civile. La sussidiarietà è, inoltre, aiuto economico, istituzionale e legislativo, offerto a entità sociali più piccole, che implica che lo Stato di astenga da un intervento diretto, in quanto restringerebbe, di fatto, lo spazio vitale delle cellule della società. La sussidiarietà, insomma, contrasta con ogni forma di accentramento, di assistenzialismo e presenza eccessiva dello Stato. Come invece, purtroppo, avviene nel nostro attuale welfare state. Dove l’eccessiva centralità dello Stato è divenuta il modello di riferimento – un modello spesso “mitizzato” quando non addirittura “divinizzato” – delle più diverse forze sociali e politiche, molte delle quali hanno anche seduto e siedono in Parlamento. Magari capitasse a casa nostra quello che è appena successo in Olanda.
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2 commenti
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Pur condividendo pienamente l’auspicio di un sistema di welfare contraddistinto da un più alto grado di sussidiarietà, soprattutto nella sua veste orizzontale, i toni trionfalistici su quanto sta accadendo in Olanda mi sembrano eccessivi, o quanto meno prematuri.
Nel suo discorso Re Guglielmo Alessandro ha indicato, per conto del governo di Mark Rutte, una strada sicuramente affascinante ma che si presenta poco chiara, tortuosa e non priva di rischi. Dal discorso del sovrano non si capisce infatti quali saranno le tempistiche, i modi e gli obiettivi con cui il “classico welfare state” lascerà spazio alla “società della partecipazione”. In un momento in cui i bisogni dei cittadini si fanno sempre più articolati e numerosi a causa della crisi che non passa, l’improvviso venir meno del settore pubblico in diversi ambiti in cui attualmente garantisce servizi essenziali potrebbe rappresentare un fattore socialmente destabilizzante più che un’occasione per la società civile nel suo insieme.
Prima di prendere il caso olandese quale esempio da seguire, quindi, aspettiamo di vedere nel concreto quali provvedimenti saranno assunti dal governo di Amsterdam per realizzare gli assunti espressi dal sovrano. Come dimostra anche il progressivo arenamento del progetto Big Society nel Regno Unito, affinché possa avvenire un passaggio realmente fruttuoso dal Welfare State alla Welfare Society non bastano infatti proclami e promesse, ma occorre che il Paese nel suo insieme sia posto nelle condizioni per affrontare e assorbire il cambiamento.