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Vivo per un soffio nel cratere di Beirut. «Ora bisogna salvare il Libano»

Il botto, il volo di quattro metri, il ritorno a casa nella città inondata di sangue e macerie. Stefano Baldini lavorava vicino al porto «quando tutto si è fatto urlo e detriti». «L'Europa ha il dovere di aiutare questo paese»

Caterina Giojelli
06/08/2020 - 3:00
Esteri
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«L’onda d’urto mi ha preso, scaraventato, spiaccicato alla parete. Un volo di quattro metri in una stanza che si sfracellava in pietre, sassi, vetri». Le ossa Stefano Baldini se le è contate solo qualche istante dopo, quando il suo istinto nutrito a missioni in Palestina, durante la prima e seconda Intifada, gli ha suggerito che doveva trattarsi di una maledetta autobomba, che doveva trovare riparo perché qualcuno avrebbe potuto fare irruzione armato. «Un’autobomba, me lo sono ripetuto anche quando ho sentito provenire le urla dalla strada. La porta non c’era più, restava la parete sventrata. Dov’è l’anta, ho lasciato il mazzo di chiavi nella toppa, continuavo a ripetermi mentre mi avvicinavo all’uscita. E allora ho visto».

INTORNO SOLO MACERIE

Fuori, Beirut è esplosa. In ogni soffitto, nelle finestre, nel cielo, nel mare, nella terra, per poi sfarinarsi sul cratere fumante del quartiere Geitawi. Baldini ruota su se stesso incredulo, della meravigliosa facciata ad archi di pietra antica del convento di San Giuseppe dei frati della Custodia di Terra Santa non è rimasto nulla, solo lo scheletro. Nonostante la camicia inizi a inumidirsi del sangue delle ferite dei vetri che lo hanno trafitto, «ho capito che ero vivo, vivo per un soffio. Ancora non sapevo cosa era successo al porto, 400 metri in linea d’aria da dove mi trovavo. Sapevo solo che ero seduto alla mia scrivania a sistemare scartoffie, nel seminterrato ristrutturato del convento, forse è stato proprio questo a salvarmi quando tutto, dal pavimento al controsoffitto, s’è fatto urlo e detriti».

IN CAMMINO VERSO UNA CASA SQUARTATA

Il cellulare non prende, Baldini inizia a camminare verso casa, si trova a mezz’ora dal luogo in cui lavora come cooperante per la Fondazione Giovanni Paolo II: è allora che si rende conto che non può essere stata un’autobomba. Beirut è squartata, ogni passo incespica in pietre aguzze, larghe pozze di sangue, intorno auto carbonizzate da un fuoco rabbioso, «incontravo persone incrostate di calcinacci e ferite, piangevano, gemevano, nessuno aveva idea di dove fosse finita la città. Ben presto mi sono reso conto che la stessa domanda me la sarei posta per la mia casa». Nessuna finestra è rimasta appesa ai palazzi ancora in piedi, il resto è masso, cemento, franato insieme ai suoi abitanti, addosso a chi passava. «Eravamo in piena giornata lavorativa, Beirut usciva dalle feste dell’Eid al-Adha, il lockdown sarebbe ricominciato solo il giovedì. Era un giorno trafficatissimo». Da quel che resta di casa sua Baldini riesce finalmente a mandare un messaggio ai colleghi, «sto bene», e loro a contattare sua moglie, a Prato. «Nelle ore successive ho provato a mettermi in contatto con i colleghi che abitano nei villaggi a 50 km da Beirut, sulle montagne: le case hanno tremato anche lì. Nessuno riusciva a credere a quanto fosse accaduto sulla fascia costiera. Una tragedia nella tragedia che strazia il popolo libanese da mesi».

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NELLA VALLE DELLA BEKAA

Baldini è un tecnico agronomo, lavora per la Fondazione Giovanni Paolo II nella splendida Valle della Bekaa, al di là delle montagne. Si apprestava a rientrare per le vacanze in Italia, per questo si trovava a Beirut nell’ora maledetta, «sistemavo le ultime carte in ufficio. Ma per il resto da due anni il mio lavoro consiste nel seguire il progetto di sviluppo agricolo portato avanti dalla Fondazione (che si occupa anche di tutela del patrimonio di Terra Santa, dell’assistenza dei rifugiati siriani e delle famiglie meno abbienti, ndr) con il finanziamento dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo nelle aree vocate all’agricoltura. È un lavoro bellissimo, si tratta di favorire la crescita delle cooperative e dei produttori nella filiera: frutta e verdura coltivate attraverso tecniche sostenibili per ridurre l’impatto ambientale e che diventano un motore di sviluppo economico rurale».

UNO STIPENDIO DA 1.000 DOLLARI OGGI NE VALE 250

La situazione è degenerata a gennaio, con le prime rivolte contro il caro-vita e la corruzione del governo, seguita dalle manifestazioni pacifiche di uomini, donne e giovani di ogni confessione religiosa. Il Covid, affrontato con una chiusura del paese “all’italiana” nonostante si fossero registrati in quei mesi meno di trenta decessi e casi nell’ordine di 10-15 al giorno, ha aiutato il governo a tenere lontane le persone dalle piazze, mentre l’economia impazziva. «Per molti anni il cambio è stato fissato a 1.500 lire libanesi contro un dollaro: oggi ce ne vogliono almeno 10 mila. Uno stipendio da 1 milione e mezzo di lire, pari una volta a mille dollari, ora ne vale 250. Il paese è in ginocchio, le banche non erogano dollari, noi stessi non riusciamo a prelevare e ci siamo dovuti improvvisare importatori di macchinari: prima compravamo direttamente dalle ditte libanesi, ora con i prezzi quintuplicati è impossibile. È in questo scenario che è arrivata la seconda ondata di Covid: dal 10 luglio, complici forse i rientri di molti libanesi dall’estero, si registra un’impennata di casi di proporzioni incredibili. Fino a quella data si contavano meno di mille casi, in poche settimane si è superati i seimila».

SPERANDO IN UN ORRIBILE INCIDENTE

Ed è in questo scenario di ospedali al collasso e provati dalla pandemia che il Libano sta contando i suoi morti, cercando i dispersi, provvedendo ai feriti, stimati in oltre 4 mila ieri pomeriggio mentre erano stati raccolti 113 corpi. «I libanesi si stanno dando da fare, sono persone eccezionali, non ho mai trovato, in 30 anni di lavoro in aree di guerra, le capacità e l’impegno che ho trovato tra questa gente. Di contro non mi stupirebbe – ed è quello che paradossalmente oso sperare – che a innescare questa immane tragedia sia stata davvero un’esecrabile incuria, un orribile incidente. Nello stesso paese in cui ho visto genialità all’opera ho visto anche uscire l’acqua come doccia da lampioni montati con le canaline dell’irrigazione delle aiuole, in molti parlano oggi di uomini che erano al lavoro al porto con le fiamme ossidriche per riparare i container. Ma tutto in Libano è possibile».

Oggi Baldini rientra in Toscana da moglie e figli. Lascia un Libano fumante, falciato di lutti e ferite, per tornare presto ma anche per parlare a tutti di quel paese in ginocchio «che accoglie quasi 200 mila rifugiati siriani. Un paese che l’Europa e la comunità internazionale hanno il dovere di aiutare a rialzarsi».

Foto Ansa

Tags: Beirutesplosione portolibano
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