Magari finisce che a Fabrizio Quattrocchi gliela daranno davvero la medaglia al valor civile. Ma accadrà solo adesso che tutti hanno potuto guardare, a quasi due anni di distanza dal suo omicidio, quel maledetto video in cui il patriota di trentasei anni prova a liberarsi dalla kefiah, la benda vigliacca che i banditi iracheni gli avevano legato sul viso prima di ammazzarlo il 14 aprile del 2004. Il riconoscimento forse arriverà, ma solo adesso che ognuno di noi ha potuto osservare la prova visiva in cui Quattrocchi insegna «come muore un italiano».
Come muore un italiano? Muore con quella forma di coraggio estremo, definitivo, annodata a una gentilezza perfino fuori luogo. La gentilezza certificata da quel «posso?» rivolto ai banditi e con il quale Fabrizio, le mani legate impegnate ad abbassare la kefiah dagli occhi, ha accompagnato l’ultimo sussulto dell’anima. Chiaro che è morto da eroe.
Facile però dirlo adesso, con l’orgoglio di chi aveva intuito tutto sin dapprincipio oppure con la balbuzie di chi, costretto da quel filmato, gli rende onore malvolentieri. Il fatto è che Fabrizio Quattrocchi era a suo modo un eroe già da vivo. Il suo era un eroismo di conio speciale, era l’eroismo della quotidianità dignitosa impersonata da un giovanotto siciliano trapiantato a San Martino, quartiere pop della sofisticata Genova. L’eroismo banale d’un panettiere allergico alla farina che aveva dovuto vendere il forno nel 2001, dopo la morte del padre, e che si era votato a certe idee di destra senza alcuna mediazione ideologica. Da morto gli hanno dato del fascista, da vivo Fabrizio era un appassionato riservista di fanteria, uno che quando sentiva l’inno italiano si metteva ancora sull’attenti. Uno che sapeva menare le mani, certo, sennò non sarebbe stato l’eccellente body guard che era, ricercato dalle migliori agenzie della piazza genovese. I colleghi l’avevano soprannominato “lo psicologo” per via della calma sempre tempestiva nella quale, anziché neutralizzarli con la violenza, conduceva per mano i balordi delle discoteche convincendoli a fare i bravi. Patriota e psicologo, addirittura “samurai”. Lui che consigliava agli amici di meditare L’arte della guerra di Sun Tzu, ed era arrossito all’ultimo compleanno quando questi gli avevano regalato una katana. La spada dei samurai da impugnare tenendo al collo la gemma sulla quale aveva fatto incidere l’ideogramma taoista dell’amicizia, e dalla quale non si separava mai. Arrossiva, Fabrizio, perché chissà quanto era costata quella katana. Perché i soldi per uno come Quattrocchi, neanche mille euro al mese di stipendio, accidenti se avevano valore. Figurasi quanto contavano dal momento che Fabrizio sognava di sposare appena possibile la sua Alice, maestra precaria venticinquenne con la quale si era fidanzato l’11 febbraio del 2002, con la quale sognava di metter su casa non lontano dal civico 21 della via stretta accanto alla Chiesa in cui era cresciuto, vicino a quel palazzo di tre piani più ammezzato sulla discesa di San Martino, tra la merceria e il mercato del pesce, in cui abitava con sua madre. Anche per questo Fabrizio aveva accettato quella missione irachena così rischiosa, che gli avrebbe garantito i soldi necessari per essere un buon lavoratore, un buon marito, un buon padre, secondo il costume di chi ama la tradizione.
COSì MUORE FABRIZIO
Dunque un buon italiano. Uno che dal deserto dell’Irak scriveva ad Alice: «Voglio riempirti di fiori» e, nel frattempo, sperava di ripetere presto il meraviglioso lancio con il paracadute azzardato assieme ai camerati prima della partenza dall’Italia. Gli stessi fratelli d’arme che in un giorno qualsiasi di fine aprile lo avrebbero ricordato dedicandogli una discesa dai cieli dell’El Salvador. Gridando così: «Camerata Fabrizio Quattrocchi, Presente!». Quel giorno Fabrizio era nella nera fossa lurida scavata per lui dai carnefici iracheni che gli avevano sparato due colpi in testa. Sarebbe rientrato in patria dentro una bara, sotto la forma di un mucchietto d’ossa e un paio di Ray Ban. Morto senza aver cercato la bella morte, vissuto da eroe ignoto.