Vinicio Bulla, l’imprenditore che investe sui figli. Dei dipendenti

Di Caterina Giojelli
12 Marzo 2020
«Non voglio morire coi soldi in banca». Così il patron della Rivit li ha destinati all'educazione dei bambini dei suoi impiegati: «Mettete su famiglia»
Vinicio Bulla

Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

E venne la questione dei bambini e la questione era semplicissima, «senta, qui siamo di formazione cattolica». E allora? «E allora che fa un cattolico grato al Padreterno quando a Messa si guarda intorno e vede tante carrozzelle per anziani e poche carrozzine per bambini?». Si preoccupa? «A preoccuparsi son buoni tutti. E con le preoccupazioni al massimo ci compri un cagnolino. No, noi qui non ci preoccupiamo: noi ci occupiamo del prossimo». Cioè di padri, madri e figli. Non è banale circostanziare il precetto attorno alla culla in pieno, confortevole inferno demografico.

Non lo è per l’imprenditore Vinicio Bulla, che al diavolaccio della denatalità appostato sulla riva sinistra del torrente Astico – pronto a tendere l’agguato anche agli abitanti di quel fazzoletto di terra vicentina, i suoi figli, i suoi nipoti –, ha deciso un giorno di rispondere come Dio comanda. Era l’autunno del 2018.

Va detto che, prima di quel giorno, al suo “prossimo” Bulla ci pensava, eccome: cinquant’anni di gestione della Rivit, l’azienda di Caltrano (2.500 anime ai piedi dell’Altopiano di Asiago), che dagli anni Settanta fornisce tubazioni saldate per piattaforme petrolifere a clienti come Shell, Total, Snam, Agip, British Petroleum, Aramco, e mai una cassa integrazione, un licenziamento, un taglio di stipendio. Ma non è per questo che un anno fa giornalisti di tutta Italia hanno iniziato ad accendere telecamere e microfono davanti alla sua impresa. Tutto inizia il giorno in cui Bulla, arrivato alla soglia degli 80 anni, prende una decisione che i patiti dell’impresa razionale e funzionale definirebbero folle, «fin dall’inizio avevo deciso che i ricavi prodotti in fabbrica dovessero rimanere in fabbrica. Ma in fondo anche il patrimonio personale era frutto dell’impegno dei collaboratori. Così chiamo i miei tre figli, Marco, Matteo e Miriam, li raduno, e dico loro che non voglio morire coi soldi in banca. E che è giusto che i soldi vadano a chi ci ha aiutato a fare l’impresa e con l’impresa ad aiutare il paese. Sì, all’inizio erano dubbiosi, ma hanno fatto gli scout, sono stati educati a pensare a chi hanno intorno, e mi hanno detto: “Papà, sono soldi tuoi, devi usarli come vuoi tu”. E così ho fatto i conti, e ho capito che potevo impegnarmi per sette anni. Però», precisa ironico ma non troppo a Tempi, mentre gli chiediamo di commentare quelle valanghe di articoli sul “modello Rivit”, “l’eroe di Vicenza”, “l’imprenditore che sostiene chi fa figli”, “l’uomo che paga le rette ai dipendenti”, «non ho mica reso pubblica la cosa per difendere un monopolio, eh. Iniziassero a interpellare la propria coscienza anche gli altri imprenditori cattolici. Abbiamo una responsabilità e se abbiamo capacità finanziaria abbiamo il dovere di arrivare dove gli altri non arrivano».

E come ha usato i suoi risparmi, Vinicio Bulla? Intanto ha sottoscritto un contratto di welfare familiare che prevede per ogni bimbo nato o adottato il rimborso delle spese d’iscrizione, delle rette, dei servizi mensa e scolastici per la frequenza di nidi e materne. «In pratica si tratta di sette anni di scuola pagata, con un tetto di 500 euro netti al mese in caso di asilo nido e di 250 euro netti al mese in caso di scuola materna. Poi ho previsto un bonus di 2 mila euro lordi per ogni dipendente a cui nasce un secondogenito, bonus che sale a 3 mila euro in caso di un terzo figlio. E per dimostrare che non sono un quaquaraquà, non sapendo se verrò “congedato” entro il 2025 da questa bella terra, ho dato mandato alla mia banca di vincolare i fondi necessari». Si parla di 200 mila euro annuali, un contributo fisso coperto dai risparmi personali di Bulla e di cui stanno già beneficiando 31 bambini, figli di dipendenti della Rivit: «Se ho la fortuna di avere un patrimonio da dividere il merito è anche loro».

«Mai una cassa integrazione»

Sono 180, i dipendenti Rivit. E sì: Bulla è capace di guardarli tutti sia con sobrio realismo («parliamoci chiaro: come fa una famiglia monoreddito, con un mutuo, magari con una buona dose di strabismo edonista, per cui si sacrificano i figli per fare le vacanze e non viceversa, a pensare anche solo lontanamente di aspettare più di un bambino?»), ma anche con immensa gratitudine («perché nonostante tutto, chi aspetta un bambino c’è, chi fa il secondo, il terzo figlio, chi proietta attraverso i figli le proprie speranze nel mondo c’è. E va premiato. E chi non può essere premiato va aiutato a guardare questa possibilità più serenamente, senza il cappio o l’alibi dei soldi»).

Era «un impiegatuccio», dipendente in una ditta metalmeccanica, quando nel 1961 decise di improvvisarsi imprenditore con altri due soci. La sua storia è di quelle tutte lacrime, sangue, sacrifici e determinazione per dare fiato a un’impresina partita come sempre, «con quattro gatti» e che oggi fattura dagli 80 ai 100 milioni ogni anno, «dipende dalla materia prima, sa. Però non è che siamo diventati top player, si dice così oggi, di multinazionali di petrolio e gas in Medio Oriente, Stati Uniti e Norvegia, vendendo tubi e basta. Sono cinquant’anni che investiamo in tecnologia, innovazione, sicurezza, durata, tenuta, che offriamo altissima qualità, controlli e certificazioni fino all’ultimo spillo del ciclo produttivo. Sono processi pericolosi questi eh, un solo errore e rischi di inquinare una baia, mettere in pericolo i lavoratori. Ebbene noi abbiamo un know how all’avanguardia in grado di gestire al meglio l’ottimizzazione delle prestazioni ma anche la gestione dei rischi, per l’ambiente ma anche per l’uomo».

L’uomo è la grande passione di Bulla, così inattuale nell’era dell’inarrestabile ascesa dell’automazione robotica, «nei primi anni, quando abbiamo iniziato a espanderci e contare quaranta, cinquanta persone, dovevo occuparmi di tutto. Ero spesso via, all’estero, lontano. E sempre il pensiero a casa, ai miei uomini, ai miei ragazzi. L’azienda è cresciuta con passione famigliare, quella della mia famiglia, dei miei tre figli che al termine degli studi hanno deciso di restare a dare gambe all’impresa. Ma ci sono anche le famiglie dei miei dipendenti. Quando la crisi si fece sentire anche qui, sapevamo benissimo da che parte stare: queste famiglie non avrebbero pagato le difficoltà, abbiamo fatto sacrifici per evitare tagli, licenziamenti, cassa integrazione. Abbiamo difeso con le unghie il nostro capitale più prezioso, le famiglie. Ne abbiamo guadagnato da tutti i punti di vista. Che senso avrebbe ora portarsi nella tomba o lasciare a uno Stato che della famiglia non si cura e non si vuole curare, i miei risparmi di 50, 60 anni, risparmi di una vita per costruire un’azienda che mi sono sempre rifiutato di vendere ai fondi esteri, dove si è capaci di dire “noi”, di fare figli, di fare popolo?».

Benedetta fede fuori moda

«Le sono profondamente grata per la sua scelta di grandissimo valore sociale, che testimonia ancora una volta il profondo legame che unisce le imprese venete al loro territorio», dice parte della lettera che Elena Donazzan, assessore al lavoro della Regione Veneto, ha indirizzato a Bulla un anno fa. Oggi, davanti all’ennesimo record negativo di nascite denunciato dall’Istat, i giornalisti sono tornati a gridare uno, cento, mille Bulla. Nel frattempo alla Rivit si continua a fare quello che si è sempre fatto, si dice Messa una volta l’anno, «coerenti con la nostra fede, anche se è fuori moda», si riempiono le culle. Ci si avvicenda a tubi e acciaio con la stessa coscienza del bene comune che un giorno ha portato Vinicio Bulla a servire il vade retro al diavolaccio della denatalità in agguato sulla riva dell’Astico. 

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