Quanto c’è in comune fra le istituzioni e un elastico? La domanda viene spontanea quando in pochi mesi pezzi importanti di Stato vengono trattati in modo radicalmente diverso. Nel mirino del governo sono arrivati i prefetti; Renzi non è originale neanche in questo: nella storia della Repubblica più di una volta sono stati avanzati dubbi sull’utilità della figura, e una forza politica – la Lega – ne ha spesso reclamato l’abolizione.
L’esperienza ha però mostrato che, proprio all’apice del trasferimento di poteri e competenze alle Regioni, dei prefetti non si può fare a meno; i limiti e le scarse capacità mostrati dalle burocrazie regionali sono riusciti a farne reclamare l’intervento oltre ogni aspettativa, e più è avanzata l’attuazione della riforma del titolo V della Costituzione, più è emersa l’esigenza di una figura, tendenzialmente imparziale, di raccordo con lo Stato. In alcune aree del Sud il degrado istituzionale è tale che il prefetto, chiunque sia, è il solo punto di riferimento a livello provinciale.
Va detto che i prefetti ci hanno messo del proprio per farsi volere male: non sono rari le lentezze e i burocratismi nei quali si esercitano troppi uffici, sì che basta averci a che fare per provarne fastidio. Il top lo hanno raggiunto quando, prima di Natale, hanno indotto il governo Letta a nominare 30 nuovi prefetti, raggiungendo un numero complessivo pari al doppio delle prefetture; ora è difficile contrastare la reazione. L’italiano comune si chiede però se non vi sia un punto di equilibrio fra tale spreco e il prospettato taglio di quasi la metà delle prefetture, posto che il secondo arriva appena cinque mesi dopo il primo. E si chiede pure se una riqualificazione della figura non sia una valida alternativa per eliminare i pesi morti, senza privare i territori di quello che appare il solo aggancio allo Stato.