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Vecchio Giappone orfano di figli

L’enigma di un popolo capace di ammazzarsi di lavoro e di reagire a ogni calamità con forza sovrumana e intelligenza artificiale, ma inerte di fronte alla catastrofe della denatalità. Proprio come noi

Caterina Giojelli
14/01/2021 - 23:33
Magazine
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Passeggiata con il robot Pepper in una strada di Tokyo

Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Il latrato si sente a un chilometro di distanza: in agguato su alte piattaforme, occhi rossi lampeggianti da drago, criniere pelose, fauci spalancate e zanne aguzze, possono emettere ululati, grida di cacciatore, suono degli spari. È grazie a loro che i famelici orsi bruni sono stati ricacciati sulle montagne, dicono a Takikawa: da quando i “monster wolf”, spaventosi lupi meccanici neri come demoni, sono stati liberati per fronteggiare le aggressioni degli orsi a caccia di cibo, la città dorme in pace. Se ne contano un centinaio in tutto il paese: da Hokkaido a Okinawa proteggono case e piantagioni da volpi, cervi e cinghiali. A Miyama, invece, i campi sono difesi da settantenni in grembiule e fucile ad aria compressa: i giornali le hanno ribattezzate “Monkey Busters”, vecchiette addette a disperdere le scimmie che hanno iniziato a razziare i raccolti. Ma come si è arrivati fuori dalle ipermoderne città giapponesi, a ridosso dei monti, tra risaie e boschi di bambù, a pattugliare i confini tra centri abitati e natura con robot e nonnine armate?

Appena insediato, il nuovo governo di Yoshihide Suga ha annunciato l’ennesimo piano di incentivi per disinnescare quella che gli economisti chiamano «bomba demografica a orologeria»: 865 mila le nascite conteggiate nell’ultimo censimento. Un record negativo storico in un paese che per il 39esimo anno consecutivo ha visto scendere ulteriormente il numero dei bambini e in cui il tasso di fecondità è di appena 1,36 figli per donna, ben lontano dalla soglia del rimpiazzo generazionale.

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Dopo averle tentate tutte per convincere i giovani a metter su famiglia (dallo sponsorizzare speed date al regalare o dare in affitto a prezzi irrisori le oltre otto milioni di case abbandonate nelle province, fino a coprire oltre la metà dei costi per la fecondazione assistita delle over 40enni), il governo ha deciso che coppie con meno di 40 anni e un reddito annuo combinato non superiore ai 5,4 milioni di yen (circa 43 mila euro) avranno diritto a un bonus da 600 mila yen (circa 4.850 euro) per aumentare il tasso di natalità. Quanto ai single, parte delle risorse verrà destinata a finanziare attività di matchmaking a base di intelligenza artificiale, perché trovino l’amore anche loro, donne, uomini ed “erbivori”: vengono chiamate così le persone che si dichiarano disinteressate alla carne, alla caccia, al sesso.

Non sono poche, un celebre studio del 2015 ha rivelato che una donna su quattro e un uomo su tre in Giappone non divide la vita con nessuno, e che la metà dei single non ha alcun interesse per le relazioni sentimentali e sessuali. Per questo l’antropologa Sachiko Horiguchi ha rivolto un appello al governo: lasciate perdere gli inciuci, puntate sull’acquisto di robot capaci di sbrigare faccende domestiche.

Copertina di Svelare il Giappone, libro di Mario Vattani

«Il Giappone è il paese delle convenzioni, esiste un termine per tutto», dice a Tempi Mario Vattani, diplomatico, scrittore, già console generale a Tokyo, Kyoto e Osaka, moglie giapponese e figli cresciuti in Oriente: il suo Svelare il Giappone, uscito per Giunti nel 2020, è una sorprendente e poetica odissea del misterioso paese del Sol Levante, terra di riti millenari e infinita sopportazione, di buio e bellezza irriducibile ai canoni occidentali. Si chiama omiai, racconta, il tradizionale appuntamento combinato tra due giovani da familiari, colleghi, dal proprio capo, e oggi da agenzie, dall’algoritmo. È un incontro che si risolve in uno scambio di curriculum vitae e fotografie in posa, cui affidare la propria storia, analoga a quella di decine di migliaia di persone in tutto il paese oberate di lavoro e senza un minuto per se stesse.

Secondo l’Ocse, i lavoratori giapponesi dormono meno di tutti i loro omologhi nelle economie avanzate e si ammazzano di straordinari, letteralmente. Si chiama karoshi, la morte per superlavoro, un fenomeno così rilevante da aver reso necessaria una legge per limitare gli straordinari nel paese della piena occupazione dopo la morte di Miwa Sado, 31 anni, reporter della Nhk, deceduta nel 2017 per insufficienza cardiaca, il cellulare in mano, dopo aver fatto 159 ore di straordinari in un mese. Prima di lei un impiegato 46enne della Subaru si era gettato dal tetto dello stabilimento di Ota: dopo due anni senza straordinari pagati, per paura di essere licenziato «aveva dichiarato un monte ore di straordinari pari a zero nonostante ne avesse accumulate 105».

Morti solitarie, orsacchiotti infermieri

Chi non lavora è un parassita, si calcola che in Giappone vivano in casa dei genitori 3,4 milioni di scapoli quarantenni e cinquantenni e circa 613 mila hikikomori di “mezza età”, termine usato per definire centinaia di migliaia di adolescenti che hanno deciso di seppellirsi in camera rinunciando ai rapporti umani, vivendo di videogiochi, internet e manga. Non solo: il 25 per cento dei kodokushi, le “morti solitarie” storicamente attribuite agli anziani, è oggi rappresentato da uomini tra i quaranta e i cinquant’anni.

«Sono ormai trentamila i giapponesi che muoiono ogni anno per conto loro senza che nessuno li cerchi finché la scadenza di un pagamento, o le lamentele dei vicini per l’odore, facciano intervenire qualcuno del last cleaning, l’ultima pulizia. Sono loro a liberare case e riordinare gli oggetti appartenuti ai morti solitari, sostituendosi alle famiglie che li hanno dimenticati», spiega Vattani. «Esistono agendine chiamate ending noto per prepararsi alla fine, dove trovano posto domande quali “a chi vanno i tuoi averi?”, ma anche “hai messo a posto la casa?”. E sono stati inventati bollitori “iPot” che inviano una mail ai familiari quando un anziano prepara il tè». Se le mail non arrivano, meglio andare a controllare.

Dal 2011 le vendite dei pannoloni per anziani hanno superato quelle dei pannolini per bambini. Le carceri somigliano sempre più a case di cura: un quinto di tutti i crimini viene commesso da settantenni indigenti per assicurarsi un posto e un pasto dietro le sbarre. Il peso della terza potenza economica mondiale grava sulle spalle della coorte tra i 18 e i 65 anni, i giovani hanno svuotato le province, il Giappone rurale è abitato da anziani curvi sotto il peso dei raccolti, gli animali selvatici rivendicano il territorio.

Chi prosegue l’attività agricola di famiglia è uno sposo poco appetibile così nelle campagne di un paese che si è sempre rifiutato di investire sull’immigrazione, spiega Vattani, cresce il numero di matrimoni tra agricoltori e ragazze di Filippine, Sri Lanka, Bangladesh. Sono loro a occuparsi della vecchiaia dei suoceri, come spetterebbe a una moglie giapponese. Cura e interazione umana in ospizi e ospedali sono invece affidate a piccoli carebots coperti di pelliccia come animaletti da compagnia, e veri e propri robot-badanti: evoluzione dell’umanoide Pepper, «Robear è un robot sorridente che aiuta gli anziani ad alzarsi, li solleva, li accompagna in bagno. Le sue fattezze sono quelle di un grosso orsacchiotto bianco».

Neonati d’affari e disastri simulati

C’è qualcosa di grottescamente infantile nell’estetica che pervade la società adulta minata dall’invecchiamento delle persone, dove l’Alzheimer spegne il cervello agli anziani e lo smarphone lo spegne agli oyayubi-zoku, “la tribù del pollice”. Dove si registra un tasso di suicidi tra i più alti al mondo e l’ijime (il bullismo spesso giustificato dalle stesse vittime) non di rado sfocia in tragedia. Puerili le emoji, i colori, i pupazzetti che non risparmiano nemmeno la segnaletica stradale, puerili le smorfie e intonazioni fanciullesche assunte – leggiamo in Svelare il Giappone – da donne in carriera quanto da escort e hostess vestite da scolarette, da danarosi ojisan e uomini d’affari capaci di regredire a cena con i colleghi in grossi bambinoni ubriachi e pagare donne prosperose in “bar dei seni” per farsi allattare e coccolare come neonati.

Perché nella società super-individualista dove non si ha tempo per niente si deve poter avere tutto (anche un biglietto per un mondo di perversioni o regressioni). C’è un intero mercato diretto agli ohitorisama, “coloro che sono soli”, catene di ristoranti a postazione singola, prodotti e viaggi pensati solo per single, così come c’è uno Stato che sembra voler riempire culle proprio come piatti di ramen per single: all’addestramento ad accudire un neonato non ci pensano nonni o tate (un’onta per le donne giapponesi ricorrere a un aiuto), ma le stesse municipalità che organizzano minuziosissimi corsi preparto, e i ricercatissimi asili nido in cui portare i piccoli ben prima dell’anno.

Nessuno si sogna di violare le regole, parlare in treno o sbagliare la raccolta differenziata, nella cultura giapponese vige il gaman, la virtù di non disturbare il prossimo. E tutto segue un ordine perché la vita è piena solo se vissuta con metodo: è il solo modo imparato fin da bambini per mettere a posto ogni cosa. Tant’è, spiega Vattani, che ogni regola diventa in fretta azione eseguita sovrappensiero, e per questo paradossalmente libera. Eppure c’è qualcosa che sfugge a legge e controlli tradendo ogni automatismo che da millenni va facendosi pensiero, vita, estetica di un popolo.

Il sisma, il tifone e la culla vuota

Mentre il lupo robot spaventa gli orsi e l’orso robot mette a letto gli anziani; mentre ostetriche accudiscono un bambolotto di gomma sul tatami del corso preparto e dipendenti si addormentano su treni simili a giocattoli; mentre scorre la vita, il popolo che ha affrontato il sisma del Kanto e il tifone del Tokai, che celebra una giornata nazionale per la riduzione dei disastri, simulando scenari terribili per esercitare gente di tutte le età a reagire, inventando snakebot (serpenti robot) per localizzare i superstiti tra le macerie, questo popolo resta inerte di fronte a una culla vuota. Non riesce a riempirla, neppure su mandato governativo.

Proprio come noi. Suicidi, morti solitarie così lontane dall’harakiri dei samurai «sono solo la punta di un iceberg. La società giapponese, esattamente come quella occidentale, è in veloce decomposizione» ribadisce a Tempi don Antonello Iapicca, sacerdote italiano da trent’anni in missione a Takamatsu, «ma l’uomo è lo stesso. Il dolore antico che lo trascina nelle braccia del demone suicida anche. Ed è questa sofferenza che famiglie missionarie e presbiteri incontrano ogni giorno in un’opera di evangelizzazione che dopo tanti secoli e il sangue di tanti martiri è ancora agli inizi: la incontriamo nelle scuole, in uffici, ospedali, su treni che spaccano il secondo traghettando i lavoratori a casa come manichini da sdraiare e l’indomani rimettere a marciare sincronizzati. Occorre il bisturi per inoltrarsi tra i sedimenti di abitudini che ostruiscono la via alla verità dell’intimo del cuore».

Esiste infatti una regola o un robot per ricostruire ogni cosa in Giappone eccetto «quel che è distrutto laggiù, oltre quell’insormontabile cortina che separa l’honne dal tatemae, l’autentico dall’apparente». Quasi tutti i giapponesi, sacrificati se stessi a studio, lavoro, «hanno visto i propri giorni già scritti nel manuale di istruzioni che comprende ogni possibilità, anche quella del fallimento e della fine». Quasi tutti contano un amico o un parente suicida. Di notte il manager e l’impiegato barcollano zuppi di alcol, le ragazzine si svestono per uomini attempati, i ragazzini si murano in stanze illuminate solo da un display. Che cosa cercano in un paese capace di risollevarsi come il sole con efficenza e dedizione sovrumana dopo ogni catastrofe, in cui «strisce multicolori disegnate sulle strade, sui marciapiedi, sui corridoi di banche e ospedali guidano senza sorprese ad ogni meta?». Un segno di contraddizione.

Cristiani in terra antinucleare

Oggi il Giappone conta poco più di 126 milioni di abitanti, oltre due milioni persi in dieci anni. Spietata è la fotografia dell’arcipelago restituita a chi vede allungarsi lo spettro della japanification e della stagnazione nell’Occidente post pandemia: i minori sotto i 15 anni rappresentano il 12 per cento degli abitanti, gli over 65 il 28,7 per cento e quando nel 2040 la generazione del boom andrà in pensione, raggiungeranno il 35,3 per cento della popolazione.

Impossibile non riconoscere un legame tra culle vuote e morti solitarie. Ma è anche impossibile non riconoscere, spiega don Iapicca citando Péguy, «la piccola speranza»,«quella nascita e infanzia perpetua» che ha portato i giapponesi, incontrando l’amicizia e la libertà di un manipolo di cristiani, a ritirare i genitori dagli ospizi, rinunciare agli straordinari, tornare dal lavoro a orari umani per veder crescere e mettere al mondo i propri figli. A uscire dal proprio rifugio antiatomico per abitare in una comunità concreta, dove tutto, origine e destino, antenati e stirpe, trova il suo posto. Una comunità in rapporto con un Dio risorto dai morti che ancora genera vita come unica alternativa alla caverna umana e digitale in cui va seppellendosi ogni civiltà secolarizzata. E dalla quale, ce lo racconta il Giappone, verranno al mondo umanoidi e mostruose creature meccaniche dagli occhi rossi.

Foto Ansa

Tags: crisi demograficacrollo demograficodemografiadenatalitàfigligiapponeinvecchiamento della popolazionenatalitàsolitudinetempi gennaio 2021
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