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Vado a vivere in Albania. Ritratto di un (ex) paese miserabile diventato meta di immigrazione. Anche dall’Italia

Papa Francesco ha scelto Tirana per il suo primo viaggio in Europa (in programma per domenica 21 settembre). Troverà un paese in crescita impressionante. Ecco perché

Daniele Guarneri
20/09/2014 - 5:00
Esteri
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albania-tirana-papa-francesco-tempi-copertinaEra l’8 agosto 1991 quando la Vlora, un mercantile costruito in Italia negli anni Sessanta, giunse al porto di Bari. A bordo oltre 20 mila albanesi. Uomini, donne, bambini, clandestini di ogni età. A chi la guardava avvicinarsi, la nave appariva come un formicaio brulicante, un groviglio indistinto di corpi aggrappati gli uni agli altri. Una marea incontenibile che faceva paura. Ora dove andranno ad abitare? Cosa mangeranno? Come vivranno? Domande normali, domande che si sono fatti tutti. E che hanno fatto nascere lo stereotipo dell’albanese delinquente da cui guardarsi le spalle.

Bisogna dirlo, alcune di quelle perone si sono inserite bene nei ranghi della criminalità organizzata. Ma non tutte. In molti si sono dati da fare, hanno trovato un lavoro, poi una casa. I ragazzi hanno studiato e anche con ottimo profitto. Si sono integrati. E da qualche tempo hanno cominciato a ritornare in patria. In aereo, non in nave. Con un’ora di volo si raggiunge Tirana in tutta comodità. Tornano per aprire nuove attività e portare in Albania quello che hanno imparato in questi ultimi vent’anni.

Tornano perché trovano un paese diverso da quello da cui erano scappati. Lo racconta a Tempi Klaudia Bumci, redattrice di Radio Vaticana, di origine albanese. «Dagli anni Novanta a oggi tutti si sono dati da fare. C’era da ricostruire un paese dopo cinquant’anni di dittatura comunista, dove tutto era dello Stato, dove non esisteva la proprietà privata. Il passaggio da una dittatura a una democrazia non è semplice come dirlo. C’era da imparare tutto, anche le cose più banali: rispettare le regole o avviare una attività in proprio non era per nulla scontato. Diciamo che lentamente, con difficoltà ma con grande impegno le cose sono migliorate. Prima si scappava dalla povertà, dall’insicurezza politica e sociale. Oggi non più: gli albanesi potrebbero circolare in Europa senza visto. Ma l’ondata di persone che si aspettavano gli Stati occidentali non è mai arrivata. Oggi nessuno vuole emigrare dall’Albania: il paese è in crescita, l’economia nazionale è ben avviata, la gente lavora e fa progetti per il futuro. Per questo molti di quegli immigrati degli anni Novanta stanno facendo ritorno a casa. Non solo dall’Italia, anche dalla Grecia e da altre parti del mondo».

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Tornano con in tasca una laurea in economia, in giurisprudenza o in relazioni internazionali. Oppure semplicemente con un bagaglio di esperienza enorme, frutto di tante ore di lavoro, partendo dal gradino più basso. Come Muharrem Cobo, originario di Berat. Nei primi anni Novanta studia legge a Trento. Per mantenersi fa il cameriere in un winebar della città. Poi conosce Danilo Chini dell’Enoitalia che lo convince a tornare a casa e con i soldi messi da parte a comprarsi alcuni terreni intorno a Berat. Oggi produce vino, «il fiore all’occhiello dell’Albania e non solo. All’estero lo chiamano il Ferrari dei Balcani», dice Bumci. Cobo ha un giro d’affari di circa 200 mila euro: una storia di successo per il paese delle aquile.

C’è poi Edmond Angoni, che da Scutari raggiunge Venezia nel 1991 e lì impara a disegnare e costruire le maschere tipiche del carnevale lagunare. Oggi il laboratorio Arlecchino di Scutari, racconta Bumci, «è l’unico posto in Albania dove si producono maschere che coprono il capo ai veneziani e alle migliaia di turisti che giungono ogni anno per il carnevale. C’è anche gente che nel Nord Italia ha imparato a lavorare il legno, è tornata a casa e ha aperto una piccola falegnameria che oggi è diventata una grande fabbrica. Le possibilità che il mercato offre in Albania sono maggiori di quelle che ci sono oggi in Italia, la tassazione è diversa, c’è meno burocrazia, l’economia è in via di sviluppo e quindi c’è spazio per tutti, soprattutto per chi introduce novità».

Quando si parte dal fondo
Altro che crisi. L’Albania sembra proprio non conoscere questa parola. Per il paese che ha appena ricevuto l’ok alla candidatura per entrare a far parte dell’Unione Europea «gli standard richiesti da Bruxelles hanno solo migliorato la vita dei cittadini, hanno portato più democrazia, più regole. Certo, in questo momento l’economia è in fase di sviluppo, fino a pochi anni fa il Pil cresceva di 7 punti percentuali l’anno». Per il 2014 il Fondo monetario internazionale vede difficoltà nel mercato interno, ma comunque il prodotto interno lordo ad oggi ha registrato un ulteriore +2 per cento. «È facile passare da 0 a 100, da niente a qualcosina, molto più complicato è passare da 100 a 101» osserva la giornalista albanese. «L’Albania è uscita da un regime comunista molto duro, ha attirato l’attenzione della comunità internazionale che ci ha aiutato a risollevarci. E oggi cavalchiamo ancora quest’onda positiva. Probabilmente quando sarà raggiunta una certa “saturazione” si vedranno i limiti dell’Unione Europea».

In Albania, però, si vedono anche molti italiani. Ormai sono 19 mila i nostri connazionali che vivono al di là dell’Adriatico, solo a Tirana sono presenti oltre 500 imprese di origine italiana. «E non da oggi», chiosa Bumci. Già negli anni Novanta gli italiani emigravano in Albania alla ricerca di nuove opportunità professionali: «Hanno portato la Coca Cola, tanti modelli di calzature artigianali, senza dimenticare i prodotti della vostra ristorazione. In Albania la mozzarella non esisteva, oggi si produce. Alcuni servizi pubblici italiani come il catasto per un certo periodo sono stati fatti in Albania, e anche il centro servizi Vodafone. Fino allo scorso anno l’Italia era il primo partner commerciale per l’Albania e il 60 per cento degli imprenditori stranieri erano italiani».

Ma quello che colpisce è che a Tirana si incontrano anche pensionati del Belpaese. «Nel vostro paese faticano ad arrivare alla fine del mese, da noi vivono più che bene con quello che passa loro l’Inps», continua la cronista di Radio Vaticana. «In Italia uno stipendio medio si aggira intorno ai 1.300 euro al mese. In Albania è di 250 euro. I generi alimentari costano un terzo. Capisce che se uno ha qualche soldo da parte può cavarsela benone. I pensionati albanesi se hanno la casa vivono con 100 euro al mese. In Italia i “nonni” devono aiutare economicamente i figli. In Albania è il contrario. Alcuni sono in difficoltà ma grazie ai soldi di parenti che lavorano all’estero riescono a vivere».

Una mentalità diversa
Un vero e proprio boom economico e sociale, proprio come quello italiano degli anni Sessanta. Ma i problemi non mancano. «La corruzione c’è, come in Italia. L’Albania non è il paradiso. Si fa molto tramite le conoscenze. Ma anche in questo caso c’è una novità: i politici, i cittadini, tutti, stanno lottando contro il malaffare. Oggi è un problema sentito mentre prima era una cosa normale. Il tentativo sembra proprio quello di ricostruire un paese civile. I veri problemi sono quelli quotidiani che un cittadino non può risolvere da solo e che la classe politica non ha ancora affrontato definitivamente. D’estate, a Tirana, l’acqua è razionata. Arriva in ogni casa, ma solo in certi orari. La stessa cosa per la corrente elettrica durante l’inverno. I sistemi di distribuzione sono obsoleti, hanno bisogno di un rinnovamento infrastrutturale pesante che richiede ingenti fondi e la politica non se ne è ancora occupata».

La differenza più importante
Tirana è passata da una popolazione di 300 mila abitanti a 1,2 milioni in pochi anni, sono nati nuovi quartieri che evidentemente necessitano di luce, acqua, strade, scuole, ospedali. «Ma le infrastrutture non aumentano alla stessa velocità della crescita demografica», insiste Bumci. «Il pane quotidiano non manca a nessuno, ma se ti serve un medico ti rivolgi a un ospedale che nella maggior parte dei casi è fatiscente. È anche difficile trovare i medicinali adeguati. Abbiamo ottimi medici, ma non possiamo fare affidamento su ospedali pubblici decenti. Quasi tutti hanno un’automobile, circolano anche gli ultimi modelli di Suv, quello che manca sono le strade. Cosa può fare un cittadino comune? È lo Stato che dovrebbe intervenire. Ma si vive con gioia, non c’è quella crisi psicologica che si nota in voi italiani: si lavora e si vedono i frutti della propria fatica. Gli albanesi si accorgono di avere più possibilità rispetto a prima, ecco perché non c’è pessimismo. I problemi non mancano, ma c’è speranza per il futuro. Quella che manca a voi italiani».

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