Pubblichiamo un contributo dello storico Marcello Croce; approfondimento del dibattito sviluppatosi su tempi.it su religione e politica.
Nella storia del potere politico, uno degli effetti epocali della Rivoluzione francese fu la sostituzione del principio di autorità con quello di rappresentanza. Prima della rivoluzione i sistemi rappresentativi erano comunque sotto il segno dell’autorità. Così Alexis de Tocqueville, quando traccia un quadro sulla Francia prima della rivoluzione:
«Le città hanno costituzioni molto varie (…). Taluni sono scelti dal re, altri dall’antico signore, o dal principe titolare dell’appannaggio; ve ne sono di eletti per un anno dai loro concittadini. Al centro e presso il trono si è costituito un corpo amministrativo di singolare potenza, nel cui seno tutti i poteri si riuniscono in modo affatto nuovo: è il consiglio del re. Esso è, in pari tempo, corte suprema di giustizia e tribunale supremo amministrativo (…) Detiene inoltre, per beneplacito del re, il potere legislativo (…) decide tutti gli affari importanti (…). Tutto finisce per farvi capo, e da esso parte l’impulso che si trasmette all’intero meccanismo del governo. Con tutto ciò, non ha facoltà giurisdizionali sue proprie; è il re che decide solo, ancor quando pare che statuisca il consiglio» (da L’antico regime e la rivoluzione).
Non è il luogo di insistere sul significato religioso che investiva ovunque il principio di autorità sia prima del cristianesimo sia lungo i secoli cristiani. Lo storico Attilio Levi, ad esempio, scrive che nell’antica Roma «quel complesso religioso-politico che è l’auctoritas non può venire da una delega elettorale, ma è invece inerente allo speciale intervento delle forze divine nella vita pubblica». E ben noto in san Paolo (Romani, XIII,1): «Non c’è autorità (ἐξουσία) che non venga da Dio».
La Rivoluzione francese spostò quindi l’asse millenario della politica. Come scrive lo storico François Furet:
«Poiché il popolo è l’unico che ha il diritto di governare, o che, se non può farlo, deve almeno rifondare costantemente l’autorità pubblica, il potere appartiene a chi parla in suo nome» (da Critica della Rivoluzione francese).
Così l’autorità d’ora in poi consisterà in una sostituzione rappresentativa del popolo, o “di tutti”, resa possibile dalla pretesa di garantire i diritti di chi non avrebbe la capacità o la possibilità di farlo da sé.
Con il mito del contratto sociale (Hobbes, Rousseau) si ebbe il riferimento a un nuovo tipo di universale politico, la totalità dei citoyens, nell’ambito di una corrente filosofica che nel 1600 riconduceva ogni universale del pensiero a dei concetti appena rappresentativi di realtà che di per sé sono esclusivamente individuali: nel nominalismo gli universali sono puri nomi.
In sintonia con le rivoluzioni scientifiche che escludevano il principio di eccezione (in natura vi sarebbero solo inesorabili leggi universali), il valore dell’eguaglianza ispirò la forma politica originaria di aggregati costituiti da soggetti di diritti. I diritti individuali attestati dal giusnaturalismo e sostenuti dalle idee liberali appartengono ad un uomo puramente naturale, considerato in una mitica condizione originaria. Un’evoluzione, questa, che presupponeva la crisi dell’umanesimo europeo (che valorizza invece la memoria). All’origine delle rivendicazioni dei diritti vi erano il dibattito drammatico svoltosi specialmente in Spagna sulla natura dei nativi d’America (De Vitoria) e la sanguinosa tragedia delle guerre di religione europee (Grozio).
Fra il 1776 (in America) e il 1789 (in Francia) vennero scritte per la prima volta “dichiarazioni” dei diritti dell’uomo, nell’ambito di rivoluzioni politiche che originariamente affermavano principi generali relativi all’uomo come tale, senza attributi o qualifiche o delimitazioni che definissero differenze tra i popoli. In genere si attribuiva il nome di “nazione” a “totalità” rappresentative di questo nuovo tipo.
Un punto significativo fu l’abbandono del ius naturae di origine metafisica e carattere imperativo (legge dei doveri, ancora presente nell’etica kantiana) per avviare un nuovo concetto di diritto di senso rivendicativo: i diritti dell’uomo (e del cittadino). Ebbe inizio altresì un inedito tipo di mobilitazione popolare, destinato a cambiare radicalmente il significato della politica. Si affaccia, cioè, la forma della democrazia, in cui ogni persona è chiamata alla politica, in cui tutto è destinato a politicizzarsi.
Com’è noto, a queste “totalità” il secolo successivo, attraverso la cultura del Romanticismo prima e poi con il Positivismo, fissò limiti e peculiarità ora “spirituali”, ora “scientifiche”: il Romanticismo definì il concetto di nazione come memoria storica; il Positivismo nella radice etnico-razziale. Questo voleva dire che il secolo XIX aveva dato vita a una reazione all’orientamento antistorico assunto dall’Illuminismo. L’universale non poteva consistere nella riduzione dell’individuo a una concezione astratta di genere umano, ma nella concretezza di una comunità la cui storia gli conferisce un’identità specifica. Fu la filosofia di Hegel a tentare la sintesi tra i due secoli e le loro diverse direzioni, implodendo successivamente nei rovesciamenti operati da Nietzsche. Più tardi la catastrofe delle guerre mondiali del XX secolo sperimentò quella stessa implosione sul piano strettamente politico-economico e con effetti inauditi nella vita delle nazioni.
Veniamo all’oggi. Verso la fine del XX secolo, dopo la fine del comunismo, è giunta a compimento una rivoluzione antropologica di portata mondiale, la cui base è stato lo stravolgimento dei concetti di spazio e di tempo, che ha investito direttamente il significato di comunità.
Lo spazio, fino ad allora costituito dal rigore “geometrico” e quindi statico del limite, e percepito dall’uomo in un senso fondamentalmente qualitativo e cioè basato sulla differenza e sulla distanza, si è contratto e omologato in un processo di graduale e relativa indifferenziazione. Per capirci è il modello spaziale di Internet.
Il tempo a sua volta ha subito un’accelerazione fortissima legata ai processi di digitalizzazione, oltre che a quelli della meccanica classica, determinando un fenomeno di grande effetto pratico, cioè la simultaneità della comunicazione. Qualsiasi messaggio della vita quotidiana oggi passa immediatamente dal mittente al ricevente. La comunicazione occupa stabilmente il dominio dell’inter-esse umano e quindi anche il senso del tempo (quello che i greci chiamavano “il divenire”, τό γίγνεσϑαι).
Dove porterà tutto questo? A un nuovo, progressivo svuotamento dell’uomo storico, che riporta la verità dell’uomo a una nudità esistenziale. Rispetto all’esistenzialismo che ebbe luogo in Europa al tempo delle guerre mondiali, e che fu caratterizzato dal pessimismo ontologico, la forma che questo denudamento dell’uomo ora sta assumendo è quella di un universalismo di radici economiche, che le contraddizioni del problema demografico rendono inquietante e drammatico. Basta mettere a confronto l’enorme cifra raggiunta dalla popolazione mondiale e la sterilità dell’Italia. L’odierna rivoluzione della tecnica rispecchia un’emergenza storica, quella di contenere, controllare, livellare e governare l’inarrestabile eruzione demografica mondiale.
Mi spiego. L’esistenzialismo sorto fra le due guerre mondiali rigettava la storia per cercare l’essenziale dell’uomo nella sua “singolarità” irriducibile al dominio del collettivo (Kierkegaard). La singolarità non è compatibile con l’universale dell’etica e della politica perché è tutta compresa dagli estremi della vita, il nascere e il morire, e, in ogni caso, è costituita da una “trascendenza”.
Al contrario, l’uomo “nudo” al quale tende l’epoca contemporanea sembra appartenere a universali che attraverso lo smarrimento della memoria storica lo dispongono a entrare nei potentissimi sistemi tecnici di aggregazione “virtuale”. Ne sta lentamente emergendo un tipo umano affrancato dal proprio suolo natìo.
Ma si badi, che questo non accade solamente in relazione ai movimenti migratori di tipo geografico, di cui si parla per esempio rimpiangendo la “fuga di cervelli” o a proposito dei flussi verso l’Italia. Ciò a cui mi riferisco, e che è sotto gli occhi di tutti, è quella sorta di migrazione “ideale” in corso nel nostro continente e che consiste in un distacco dal suolo della storicità per “abitare” una regione metropolitana indefinitamente (e astrattamente) “mondo”, senza più alcun riguardo al riferimento geografico di origine, senza più patria.
E non c’è dubbio che quanto oggi alimenta l’intensità e l’estensione della comunicazione sia piuttosto un processo di livellamento, che una possibilità di incontro fra culture diverse. La tradizione cattolica insegna che l’essenza del singolo (di ogni uomo) non può assolutamente prescindere dai tratti storici e culturali che costituiscono attualmente la sua esistenza concreta. Un uomo “in generale”, come vorrebbe una certa pubblicistica non solo laica, potrà rientrare nei cataloghi che distinguono le diverse specie viventi ma in sé è nessuno.
Ci troviamo infine nel mezzo di un gigantesco fenomeno di trasformazione, che se, da un lato, sta imponendo l’uniformità dell’adeguamento collettivo alla rivoluzione tecnico-scientifica terrestre, giustificandolo da un punto di vista economico, dall’altra, sta determinando una rapidissima regressione delle culture tradizionali della terra. Un tale processo di involuzione è parallelo e direttamente legato a quello che ormai viene definito di emergenza “ecologica”. Anche quest’ultimo, come è ben noto, dipende dall’universalismo della tecnica.
Fino a qualche decennio fa si poteva ancora supporre che l’incontro tra le culture avvenisse come dialogo tra identità diverse, ognuna ricca e forte del proprio passato. Oggi non più. La stessa causa che impone ai popoli rifusioni fino a ieri impensabili, sul modello degli Stati d’America, è quella che dissolve le loro identità e quindi la possibilità stessa del dialogo. Quanti oggi, talvolta addirittura con furore ideologico, celebrano la necessità dei fenomeni migratori sembrano ignorare quale futuro di possibili conflitti razziali si prepari. Quello di razza, infatti, è lo stadio comunitario più rozzo ed elementare in cui la natura umana potrebbe riconoscersi, quando vengano meno le ragioni spirituali e culturali che sole rendono possibile l’incontrarsi umano.
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