«Le due riforme, sia l’attuale che quella approvata dal centrosinistra nel 2001, sono riforme incomplete. Il bene del paese vuole che il giorno dopo il referendum ci si sieda intorno ad un tavolo per rivedere l’assetto del sistema. Ma se nelle urne dovesse prevalere il “no”, ciò avrebbe l’effetto di bloccare tutto il processo della riforma. Una maggioranza di “no” sarebbe una boccata di ossigeno solo per quegli apparati istituzionali e sindacali che vogliono un maggior potere al centro per mantenere le proprie rendite di potere. La riforma costituzionale che sta per venire sottoposta a referendum è piena di difetti, ma ha un grande pregio, che da solo basta a giustificare il “sì”: tiene aperta una questione che quel nucleo di potere burocratico cui sopra accennavo vuole chiudere per sempre o quasi». Quando anche un coltissimo ultrà del federalismo come Robi Ronza, ascoltato consigliere del governatore lombardo Roberto Formigoni e autore di tanti articoli e saggi sull’argomento improntati al rigore senza compromessi, si schiera senza esitazioni per il “sì” al referendum del 25-26 giugno vuol dire che la posta in gioco è davvero decisiva. Perché, diciamocelo, i contenuti della riforma costituzionale del centrodestra che saranno sottomessi al responso popolare stanno al vero federalismo e al vero premierato come i prodotti di forneria di “Pizza Hut” stanno alla napoletana genuina: una pallida imitazione che sa di posticcio. E il fatto che i fautori del “no” gridino dai giornali e dai manifesti all’attentato all’unità nazionale, alla svolta autoritaria, alla disgregazione delle istituzioni, testimonia solo con che razza di dinosauri e di interessati divulgatori di panzane abbiamo a che fare. Però una simil-pizza è già un passo avanti nella giusta direzione, se l’alternativa è quella di dar ragione a chi propone di pasteggiare a pane e acqua da qui all’eternità.
Nel testo costituzionale che andremo a votare non c’è più il “federalismo a geometria variabile”, che tanto faceva arrabbiare una vasta schiera di pretoriani della Costituzione del 1948 che va da Agazio Loiero (presidente di centrosinistra della Regione Calabria) ai commentatori di Repubblica (in particolare Andrea Manzella), e che tanta buona prova di sé ha dato in Spagna (prima che Zapatero liberasse i dèmoni della disgregazione nazionale col nuovo statuto catalano e lo sciagurato negoziato con l’Eta). Grazie ai conservatori di marca An e Udc presenti nella maggioranza, il terzo comma dell’art. 116, che legittimava tale prospettiva, è stato abrogato. Non c’è nemmeno il federalismo fiscale, demandato a leggi ordinarie. E per finire il tanto discusso “premierato” è in realtà poco più che simbolico: per sciogliere le Camere il capo del governo dovrà comunque continuare a rivolgersi al capo dello Stato, e non può nulla nei riguardi del Senato, che è eletto a parte. Altro che poteri dittatoriali: qui non siamo neanche al cancellierato all’inglese.
La sinistra ha fatto esplodere i contenziosi con Roma
Perché, allora, bisogna votare “sì” al referendum? Perché è un male minore rispetto alla vittoria del “no”. Il testo del centrodestra non ha solo difetti, ha anche pregi che con una bocciatura andrebbero sicuramente persi. La riforma del centrosinistra nel 2001 aveva individuato una lunga serie di “materie a legislazione concorrente” fra lo Stato centrale e le Regioni. Il risultato è stato un boom di conflitti di competenze fra i due soggetti, che sono finiti davanti alla Corte costituzionale. Nella sua relazione introduttiva in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario nel febbraio scorso, il presidente della Corte Annibale Marini ha annunciato che nel 2005, per la prima volta dal 1988, il numero delle decisioni rese dalla Corte in materia di conflitti di competenze ha superato quota 100. Tutto merito della riforma del centrosinistra, alla quale il nuovo articolo 117 porrebbe invece rimedio, fissando una nuova ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni che limita grandemente il numero di quelle “a legislazione concorrente”, fonte dei conflitti. Se vince il “no”, continuerà la deriva verso il “governo dei giudici” (quelli della Corte costituzionale, in questo caso), a scapito della sovranità popolare.
Un altro passaggio pregevole della nuova Costituzione è quello relativo alla sussidiarietà: la riforma del centrosinistra si limitava ad affermare che «Stato, Regioni, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà», invece il nuovo testo parla di «riconoscimento dell’autonoma iniziativa dei cittadini e degli enti di autonomia funzionale per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Si chiarisce cioè che la sovranità non appartiene allo Stato e alle sue istituzioni, che benignamente favoriscono gli sforzi dei sudditi, ma al popolo, che viene prima (cruciale è la parola “riconoscimento”).
Anche se il Senato federale previsto dal nuovo testo costituzionale presenta vari difetti che andranno corretti in sede parlamentare, ci troviamo per la prima volta davanti ad un tentativo serio di correggere quella che è una vera anomalia italiana: il bicameralismo perfetto, dove Camera e Senato si fanno i dispetti l’una disfacendo il lavoro dell’altro in base ad una sovrapposizione dei compiti che, a livello di democrazie avanzate, esiste solo nel nostro paese. Con la riforma, la Camera si occuperà delle materie di competenza statale, il Senato di quelle a competenza partecipata fra Stato e Regioni: i due rami del Parlamento saranno “specializzati”. Questo, e non soltanto l’esigenza di maggiore snellezza, giustifica la riduzione dei parlamentari eletti dagli attuali 945 a 770. Un passo avanti in direzione del federalismo è anche la riforma della nomina dei giudici della Corte costituzionale: resteranno 15, ma quattro di loro saranno nominati dal Senato federale integrato dai presidenti delle Regioni; finora gli enti di rappresentanza del territorio erano esclusi dalla nomina dei giudici della Corte.
Meno tasse per tutti
Le ragioni della riforma vanno poi raffrontate coi torti di una propaganda per il “no” malevola. La sinistra continua a martellare che con la devolution di scuola, sanità e polizia regionale tasse e spesa pubblica aumenteranno. È vero il contrario: nei paesi a sistema federale l’incidenza di tasse e imposte sul prodotto interno lordo (pil) è molto meno accentuata che nei paesi centralisti, dove tale valore è andato invece crescendo costantemente nel corso dell’ultimo trentennio. Nel 1975 l’imposizione fiscale era pari al 25,6 per cento del pil negli Stati Uniti, al 35,3 per cento in Germania, al 27 in Svizzera, al 26,1 in Italia e al 35,9 in Francia: i primi tre paesi sono repubbliche federali o confederali, gli ultimi due sono centralisti; ebbene, trent’anni dopo l’imposizione fiscale è rimasta più o meno la stessa negli stati federali, mentre è esplosa in quelli centralisti: oggi gli Stati Uniti stanno al 25,4 per cento, la Germania al 36,2, la Svizzera al 29,8, mentre l’Italia è salita al 43,4 e la Francia al 44,2. Le ragioni per cui la realtà smentisce la propaganda della sinistra in tema di costi della devolution non sono difficili da comprendere. Come ha spiegato il presidente Formigoni al convegno di Eunomia a Firenze del novembre scorso: «Il cittadino vuole capire perché deve pagare. Per rendere chiaro questo è necessario che ci sia correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate. In tale contesto, entrando in concorrenza tra loro anche in quanto ad attrattività fiscale, Comuni, Province e Regioni sono spinti a giungere al miglior rapporto possibile tra prelievo e spesa».
L’ottusità dei promotori del “no” sembra purtroppo andare ben al di là delle trovate propagandistiche per convincere gli elettori che il federalismo costa troppo e disintegra l’Italia. C’è da temere che, con poche eccezioni, la nuova classe di governo non abbia compreso che nell’era della globalizzazione la competizione per le quote del mercato mondializzato non si dà più fra sistemi-paese, ma fra sistemi territoriali di varia misura, che possono essere entità sub-nazionali (pensiamo al boom economico della Catalogna), Stati grandi come regioni (il caso di Irlanda e Finlandia) oppure regioni che hanno relazioni che vanno oltre le frontiere statali: è il caso della Lombardia, parte della “banana blu” (la fascia territoriale più sviluppata d’Europa) che va dall’Inghilterra a Milano. I discorsi sul rischio che il federalismo provochi l’abbandono a se stesse delle regioni poco sviluppate e legittimi l’egoismo di quelle ricche lasciano il tempo che trovano. Come ha detto ancora Formigoni a Firenze: «I fautori del centralismo e dell’immobilismo che invocano il tema della solidarietà tra Regioni contro il processo federalista lo fanno in malafede. In un’economia globalizzata come quella in cui viviamo la crescita non può venire da rendite di posizione. Se un paese, una Regione, un territorio non sono concorrenziali vengono spinti ai margini, perdono risorse e perciò diventano sempre meno capaci non solo di produrre, ma anche di distribuire. Il federalismo, grazie alla valorizzazione delle eccellenze territoriali, può essere un potente strumento di rilancio non solo per le regioni più avanzate, ma anche per quelle che fino ad oggi hanno fatto più fatica. Inoltre, in un contesto compiutamente federale, la leva fiscale può essere la chiave per richiamare nuovi investimenti e rendere ancora più attrattivi tutti i territori. Produttività e solidarietà non stanno in alternativa, sono anzi le due facce della stessa medaglia».