
Tutto pronto per la prossima recessione

Articolo tratto dal numero di Tempi di novembre
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) calcola che fra il 1970 e il 2011 il mondo ha attraversato 147 crisi finanziarie. Alcune di queste sono state piccole, come la crisi bancaria del 1994 in Bolivia di cui non si ricorda nessuno, altre epocali, come quella scoppiata negli Stati Uniti nel 2007 ed estesasi al mondo intero dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008. La crisi del 2007-2008 ha prodotto ad oggi negli Stati Uniti un aumento del debito federale di 38 punti percentuali. Non è un record storico, quando si considera che la crisi finanziaria giapponese del 1997 condusse ad un aumento del debito del Giappone di 42 punti percentuali. Ma a livello globale la crisi del 2008 ha prodotto qualcosa senza precedenti: l’indebitamento mondiale generale (pubblico e privato sommati) è salito dal 179 al 225 per cento del Pil, pari a 164 mila miliardi di dollari (!). In Cina, il paese che ha trainato l’economia mondiale nell’ultimo ventennio, in un decennio il debito totale è raddoppiato arrivando al 300 per cento del Pil.
Insieme ai tassi di interesse bassissimi decisi dalle banche centrali, in alcuni casi addirittura inferiori allo zero (è successo in Svezia, Danimarca, Svizzera e Giappone, dove le banche private hanno dovuto pagare per tenere i loro fondi depositati presso la Banca centrale sopra a un certo livello; la stessa Bce ha stabilito il suo tasso di riferimento a meno 0,4 per cento fino a tutto il 2019), l’indebitamento è stato lo strumento attraverso cui gli Stati hanno cercato di evitare il collasso del sistema finanziario che una forte recessione avrebbe determinato.
CERCASI PIANO DISPERATAMENTE
Come ha scritto Martin Wolf,
«lo scopo fondamentale delle politiche post-crisi è stato il salvataggio del sistema: stabilizzare il sistema finanziario e ripristinare la domanda. Questo è stato ottenuto puntellando il sistema finanziario che stava collassando per mezzo degli stati patrimoniali sovrani (cioè emettendo titoli di debito pubblico, ndt), tagliando i tassi di interesse, permettendo ai deficit fiscali di esplodere nel breve termine ma limitando la loro espansione per via ordinaria, e introducendo un nuovo complesso sistema di regolamentazioni finanziarie. Ciò ha impedito il collasso economico, diversamente da quanto accaduto all’epoca della Grande Depressione negli anni Trenta, e \ha prodotto una debole ripresa».
Debole ripresa a livello mondiale, debolissima nell’Eurozona. Ora però il problema che si presenta è il seguente: posto che i dati statistici indicano la ricorrenza sistematica di crisi finanziarie, e che le crisi maggiori, con effetti su tutto il sistema mondiale, ricorrono grosso modo ogni dieci anni, cosa si potrà fare per invertire il ciclo la prossima volta che sul sistema finanziario internazionale si abbatteranno le conseguenze di una crisi come quella dei mutui sub-prime americani ora che tutte le armi sono state già consumate?
I tassi d’interesse, infatti, sono ancora poco sopra lo zero, e la leva del debito è già stata ampiamente utilizzata, sovraindebitando tutto il sistema. Fed e Bce hanno annunciato la fine dei rispettivi quantitative easing (l’acquisto di titoli di debito nazionale) e il rialzo progressivo dei tassi di interesse. Ma il problema è che se lo fanno troppo velocemente l’attuale debole ripresa si arresta e scoppia un’altra crisi, stavolta innescata dal debito sovrano (l’Italia è la maggiore indiziata in questo caso), se lo fanno troppo lentamente e arriva un’altra crisi finanziaria di origine diversa dal debito sovrano (lo scoppio di una bolla immobiliare, una crisi finanziaria dovuta alla sovraesposizione delle banche cinesi con imprese insolventi, eccetera), il tracollo generale è garantito.
A ciò si aggiunga il fatto che le crisi sistemiche arrivano sempre senza essere state previste. Quando negli Stati Uniti si manifestarono i primi problemi legati ai mutui sub-prime, il governatore della Fed Ben Bernanke si affrettò a dichiarare che essi erano talmente «limitati» che non avrebbero avuto «significative ricadute». Prakash Loungani, un economista del Fmi, ha dimostrato in uno studio che gli analisti «sbagliano a valutare la grandezza di una recessione di un largo margine». Analizzando le recessioni del passato, ha scoperto che nel caso di 63 paesi che ne hanno avuta una fra il 1992 e il 2014, nell’aprile dell’anno precedente a quello che ha visto una contrazione del Pil la previsioni pronosticavano una crescita del 3 per cento.
Per tutto il 2018 si sono succeduti summit di economisti e governi che si sono arrovellati attorno al problema di cosa fare nel caso di una nuova imminente recessione, e alla fine il responso sembra purtroppo essere quello che si legge in un recente titolo del Sydney Morning Herald: «We don’t have any strategy to deal with it», cioè: «Non abbiamo una strategia per affrontare una nuova recessione». Sono parole di Martin Feldstein, economista di Harvard presidente del Consiglio dei consulenti economici al tempo della presidenza Reagan, pronunciate nei corridoi del recente Forum Ambrosetti di Cernobbio in evidente polemica con le posizioni di Olivier Blanchard e Lawrence Summers, rispettivamente ex direttore del Fmi ed ex ministro del Tesoro americano, ancora convinti che anche con un rapporto debito pubblico/Pil degli Stati Uniti passato dal 67,7 per cento del 2008 al 105,4 per cento dello scorso anno e un deficit di bilancio che nell’era Trump si avvicina ai mille miliardi di dollari all’anno siano sempre possibili le tradizionali politiche di stimolo fiscale basate su tagli delle tasse e quantitative easing.
DEBITO IN MANI STRANIERE
Secondo Blanchard coi tassi di interesse prossimi a zero «si può emettere debito senza doverlo veramente ripagare, e così il livello dell’indebitamento in rapporto al Pil non esploderà». Il bilancio dello stato patrimoniale della Fed è già caricato di 4.200 miliardi di dollari di titoli pubblici dopo una serie di operazioni di quantitative easing, ma secondo Blanchard non è un problema: «Se c’è bisogno, potremmo tranquillamente raddoppiare questa cifra e non succederebbe niente di terribile». Secondo Blanchard la Fed e le altre banche centrali non dovrebbero limitarsi a comprare titoli e obbligazioni, ma dovrebbero intervenire in Borsa e comprare azioni!
Sembrerebbe fantascienza, ma è ciò che da tempo sta facendo la Banca centrale del Giappone. E il Giappone è quel paese dove il debito pubblico negli ultimi dieci anni è passato dal 191,8 al 253 per cento del Pil senza rompersi l’osso del collo, l’unico effetto collaterale indesiderato essendo la crescita economica stagnante; allora perché anche gli altri paesi non possono fare questo? Per il semplice motivo che mentre in Giappone solo il 10 per cento del debito è in mani straniere, in America la percentuale è del 47 per cento, in Italia è del 31, in Francia il 57, in Spagna il 41, eccetera. In tutti questi paesi politiche non ortodosse facilmente scatenerebbero la fuga dei creditori stranieri.
Non è un caso che Blanchard evochi la possibilità che le banche centrali si mettano a comprare azioni in Borsa per sostenere il corso generale dell’economia. La prossima crisi finanziaria globale infatti potrebbe nascere da un tracollo epocale della Borsa americana. Secondo Feldstein anni di stimolo monetario e di tassi di interesse bassissimi hanno spinto Wall Street ai massimi storici, con titoli valutari assolutamente sopravvalutati. Non appena i rialzi dei tassi d’interesse da parte della Fed prenderanno quota, il mercato azionistico crollerà, con perdite stimabili in 10 mila miliardi di dollari, che sull’economia reale avranno un effetto negativo pari a 300-400 miliardi all’anno. Da qui l’idea di Blanchard che la Fed intervenga direttamente acquistando azioni piuttosto che obbligazioni o riabbassando i tassi di interesse. Ma c’è, appunto, il problema del debito detenuto da creditori stranieri. E il fatto che negli ultimi anni il Congresso americano ha di molto ridotto la sfera autonoma di azione della Fed, creando tutta una serie di vincoli alle sue iniziative.
Altra misura non ortodossa che continua a essere evocata è quella dell’helicopter money, introdotta nel dibattito cinquant’anni fa niente meno che da Alan Friedman: in una situazione di tassi già prossimi allo zero e contemporaneamente di recessione che perdura, la creazione e distribuzione di denaro da parte delle banche centrali direttamente agli individui o per finanziare nuovo deficit prodotto dal governo. Come se degli elicotteri volassero su di un paese lanciando soldi destinati a chi si trova sotto. Imparentati con l’helicopter money sono misure effettivamente realizzate in passato dal Congresso americano con l’Economic Stimulus Act del 2008, dove i rimborsi sulle imposte versati alle famiglie erano garantiti dalla Banca centrale, e dalla Bce con quella componente del “bazooka” che sono state le Long Time Refinancing Operations (Ltro) e le Targeted-Ltro, che hanno fornito alle banche europee denaro a un tasso negativo, cioè con un trasferimento effettivo di denaro alle banche.
Il reddito di cittadinanza approvato dal governo Conte può essere letto come una forma di helicopter money. Insieme alla Borsa statunitense, alle banche cinesi esposte con creditori a rischio e alla Turchia, l’Italia è una delle grandi indiziate per l’innesco della prossima crisi globale, a causa della troppo ambiziosa manovra anti-austerità varata dal governo. Ma secondo molti commentatori l’incendio non scoppierà a Roma, per ragioni politiche.
Scrive il premio Nobel per l’economia del 2001 Joseph Stiglitz:
«Col partito di estrema destra della Lega al potere, il suo leader Matteo Salvini, un politico esperto, potrebbe realmente portare ad effetto quel genere di minacce che i neofiti altrove in Europa hanno avuto paura di tradurre in realtà. L’Italia è abbastanza grande e ha un numero sufficiente di buoni e creativi economisti, in grado di gestire un’uscita di fatto dall’euro, istituendo una doppia valuta flessibile che aiuterebbe a recuperare la prosperità. Ciò violerebbe le regole dell’euro, ma l’onere di dichiarare l’uscita legale, con tutte le sue conseguenze, ricadrebbe su Bruxelles e su Francoforte, mentre l’Italia conterebbe sulla paralisi dell’Unione Europea per prevenire la rottura finale».
Conclude Stiglitz:
«Qualunque fosse l’esito, l’eurozona ne uscirebbe con le ossa rotte. Non bisogna arrivare a questo. La Germania e gli altri paesi del Nord Europa possono salvare l’euro mostrando più umanità e più flessibilità».
Foto Ansa
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