Subito una legge o sarà il far west dell’eutanasia

Di Caterina Giojelli
11 Luglio 2019
«Non c'è più tempo, modificare il codice penale è l'unica strada per non lasciare ai giudici l'ultima parola sul fine vita e spianare la strada ai casi "Noa"». Intervista ad Assuntina Morresi

«Non è questione di scegliere il “male minore”, è una questione di tempo: il 24 settembre i giudici si pronunceranno definitivamente sul caso Cappato e la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale, se per allora il Parlamento non avrà condiviso un testo unico sull’argomento, come richiesto dalla Consulta a ottobre, non si tornerà più indietro. Questa potrebbe essere l’ultima grande battaglia sui temi etici, la politica non può lasciarla fare ai giudici». Oggi Assuntina Morresi, docente all’Università di Perugia e membro del Comitato nazionale per la bioetica, parlerà a Roma, relatrice insieme ad Alfredo Mantovano al seminario “Diritto o condanna a morire per vite inutili?”. Un momento organizzato da ex parlamentari e numerose associazioni cattoliche preoccupate dalla scadenza imposta alle Camere dalla Corte costituzionale e dall’assenza di dibattito pubblico. «Il rischio è che si arrivi alla depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, cioè alla legalizzazione di fatto del suicidio assistito. Non è vero che mancano i numeri in Parlamento per arrivare a una legge condivisa: quello che manca è la volontà di affrontare un tema divisivo e il tempo per farlo. Arrivati a questo punto, l’unica strada per non permettere che sia smantellato il reato di aiuto al suicidio è modificare questo benedetto articolo 580 del codice penale».

L’UNICO MODO PER FERMARE LA CORTE

Morresi si riferisce al disegno di legge presentato dal deputato leghista Alessandro Pagano, e duramente criticato dall’Osservatorio Cardinale Van Thuân («La scelta del male minore è moralmente inaccettabile e politicamente perdente»), che prevede una attenuazione della sanzione per il reato di aiuto al suicidio, previsto dall’articolo 580, sottoponendola a stringenti condizioni, insieme a modifiche alla legge 219 sul biotestamento: esclusione della nutrizione assistita dal novero dei trattamenti sanitari; possibilità di presentare obiezione di coscienza; rafforzamento delle cure palliative; chiarimento delle circostanze in cui si può somministrare la sedazione profonda.

«Non si tratta di rispondere ai disegni di legge presentati sull’eutanasia, che nessuna forza politica ha reale intenzione di portare avanti: qua il problema è rispondere alla Consulta, che invece ha intenzione di andare avanti, come ha detto un anno fa», spiega Morresi. «Chi si concentra esclusivamente contro le leggi sull’eutanasia fa una battaglia teoricamente giusta ma in pratica inutile. I nostri avversari non vogliono portare queste leggi a compimento, ma le usano per allungare i tempi e far finta di occuparsi del tema, in attesa della sentenza della Corte. Se la Consulta depenalizzasse l’aiuto al suicidio nelle circostanze che ha ben descritto nella sua ordinanza, il Parlamento sarebbe poi costretto a regolamentare il suicidio assistito, seguendo i criteri dei giudici costituzionali».

CAPPATO PORTA DRITTI A NOA

Cioè se la Consulta fa quello che ha promesso di fare, continua Morresi, «poi ci si può solo rassegnare a legiferare sul suicidio assistito. Se invece il Parlamento dimostra che se ne vuole occupare, allora la Consulta avrà serie difficoltà a intervenire. In queste condizioni pensare di fare una battaglia contro le leggi depositate, sull’eutanasia, significa non aver capito la strategia dell’avversario e la posta in gioco. Con la proposta Pagano il reato di aiuto al suicidio resta sanzionato, e Cappato, per intenderci, non la farebbe franca, perché il suo caso non rientrerebbe neppure nelle attenuanti previste. È chiaro che una modifica alla legge sulle Dat (Disposizioni anticipate di trattamento, ndr) sarebbe stata preferibile, ma adesso non c’è più tempo, e finora nessuno ha mostrato di volerla fare. Per iniziare “la battaglia culturale a difesa della vita” giustamente invocata dall’Osservatorio Van Thuân, è quindi necessario fermare prima la Corte: visti i tempi, solo un intervento sull’articolo 580 potrebbe aggregare il consenso e arginare i giudici».

Se la corte depenalizzerà il reato, «la strada poi è spianata e ci porterà dritti a strazianti “casi Noa”. Il tragico messaggio della vicenda della ragazzina olandese, che ha deciso di farla finita con un medico accanto, è questo: se una persona vuole proprio morire bisogna aiutarla a morire. E nel momento in cui alla scelta di morire si riconosce lo stesso valore di quella di vivere, quando la morte è vista come possibile rimedio a un’esistenza tormentata, allora si entra in una nuova dimensione, quella che tante vittime ha già mietuto in Olanda e in Belgio».

LA MORTE COME PALLIAZIONE ESTREMA

Morresi mostra a Tempi una guida del 2014 curata dall’ordine dei medici olandesi dal titolo “Caring for people who consciously choose not to eat and drink so as to hasten the end of life”, “Prendersi cura delle persone che consciamente scelgono di non mangiare e bere per accelerare la fine della vita”. «Se la morte diventa l’estremo rimedio a un’esistenza tormentata, una sorta di palliazione finale (in Belgio è ufficialmente prevista dal percorso delle cure palliative), e per erogarla ci deve essere un medico, tanto che è necessaria una guida per assistere il suicida, perché porre limiti?, spiega Morresi. «Fermo restando che non c’è nessuna differenza sostanziale tra praticare un’iniezione o porgere un bicchiere, tra eutanasia e suicidio assistito, se la morte diventa un analgesico, un trattamento sanitario che salva dalla sofferenza, perché negarlo ai bambini, ai disabili, alle persone con disagio mentale?». La depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, fondata sulla morte come diritto della persona e come rimedio a una vita sofferente porta dritti qui: se è un’opzione il medico deve poterla proporre, non può privarne nessuno, deve essere pagato per erogarla e formato, come dimostra la guida olandese, per imparare come erogarla. «Cappato dice che anche in Italia è legale morire di fame e di sete: ha ragione, l’uomo è libero. Il problema è se chi gli sta vicino cerca di impedirglielo o può legalmente assecondarlo».

LE DAT AVREBBERO UCCISO SUBITO LAMBERT

Il caso Noa ha sollevato la coltre ipocrita che in Italia ha già ammantato il dibattito sulle Dat. «Vincent Lambert da noi sarebbe morto già da un pezzo perché in base alla legge 219 se una persona non ha lasciato dichiarazioni anticipate di trattamento ed è incapace di esprimere il proprio consenso, la decisione di sospendere i trattamenti (e nella 219 nutrizione e idratazione artificiale sono considerati trattamenti sanitari) non coinvolge il giudice, se il rappresentante legale è in accordo col medico. Nel caso di Lambert, il rappresentante legale, cioè la moglie, e il dottor Sanchez hanno concordato nel sottrargli i sostegni vitali: in Italia con la 219 non sarebbero neanche andati davanti al giudice. E per lo stesso motivo nessuna corte si sarebbe mai occupata del caso Englaro».

Quando, in vista delle politiche, i candidati di centrodestra hanno tentato di mostrarsi compatti sui “princìpi non negoziabili”, solo Idea, capofila Eugenia Roccella, si impegnò su eventuali modifiche delle leggi sul biotestamento (insieme a quella sulle unioni civili e sul divorzio breve). I leader del centrodestra, tra cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni, alle domande esplicite dei giornalisti a riguardo, dissero esplicitamente di non voler cambiare le leggi già approvate. Nessun altro alzò la voce per discutere la legge 219. Risultato: la Corte costituzionale ha messo in mora il Parlamento sul reato di agevolazione e aiuto al suicidio, e un caso specifico, ovvero la tragica vicenda di Fabiano Antoniani (dj Fabo), che già era stata bandiera dell’approvazione delle Dat, è tragicamente assurta a canone normante. «Per questo svegliarsi è doveroso – conclude Morresi -, se perderemo questa battaglia tornare indietro sarà impossibile».

Foto Felipe Caparros/Shutterstock

[liga]

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