Solo la fede non crolla

Di Leone Grotti
16 Aprile 2021
Qaraqosh, Karamles, Bartella, Mosul. Viaggio nella Piana di Ninive, Iraq, tra quel che resta di un popolo cristiano tra i più antichi del mondo. «Siamo qui grazie all’amore della Chiesa, il governo non muove un dito. E la mentalità dell’Isis non è affatto morta»
Statua della Madonna sul campanile della chiesa di Al Tahira, Qaraqosh, Iraq
La statua di Maria sulla cima del campanile della chiesa di Al Tahira a Qaraqosh, devastata dall’Isis, ricostruita e inaugurata a marzo in occasione della visita di papa Francesco (foto Manweel)

Faceva caldo la notte del 5 agosto 2014 a Qaraqosh. Khalid Zaki non aveva trovato altro modo di sfuggire all’afa dell’estate irachena che andare a dormire sul tetto insieme alla moglie e ai figli. Stava per albeggiare quando l’insegnante siro-cattolico di 42 anni fu svegliato da un tonfo sordo e da un baluginio, poi un altro e un altro ancora. «Sapevamo che cosa significavano quei colpi: l’Isis stava arrivando». In pochi pensavano che allo Stato islamico interessasse davvero conquistare la Piana di Ninive, una distesa verdeggiante di pianure e valli situata pochi chilometri a nord di Mosul e sede di città cristiane orgogliose e forti di una storia millenaria. Ecco perché Zaki, come la maggior parte della popolazione, non si mosse da casa sua. «Sono stato nell’esercito, ho fatto da interprete per gli americani a Mosul tra il 2003 e il 2008. So che cos’è un attentato e so distinguere quando un missile cade al di fuori o dentro la città: quella notte non avevo paura, perché sapevo che i jihadisti erano ancora lontani». 

Ma la mattina dopo una bomba esplose all’interno di Qaraqosh e uccise sul colpo tre bambini, usciti come ogni giorno in cortile a giocare. Fu allora che i cristiani compresero che l’Isis avrebbe davvero conquistato la Piana di Ninive e che ciascuno doveva scegliere tra convertirsi all’islam oppure scappare abbandonando tutto, forse per sempre. Zaki, come altri 120 mila cristiani, riempì all’orlo la sua automobile e nel giro di poche ore fuggì. «Mentre scappavamo, guardavo indietro verso Qaraqosh e vedevo le bombe cadere, una dietro l’altra, e distruggere le strade che avevamo appena percorso. Sembrava di essere in un film americano. Ma non era un film e io pensavo di impazzire. Tanto che, lungo la strada, in mezzo a quell’esodo biblico, mi rivolsi a un uomo accovacciato sul fianco della carreggiata, che guardava immobile la colonna delle macchine e dei disperati a piedi dirigersi verso Erbil. “Beato te che non sei un cittadino di Qaraqosh”, gli dissi. “Beato te che non sei cristiano”».

Persecuzioni, esodi e ritorni

Chi non ha una storia da raccontare come quella di Zaki nella Piana di Ninive? Chi ha dimenticato gli anni vissuti in esilio a Erbil, passati a dormire prima per strada, poi nei container o in qualche altra sistemazione di fortuna? Gli anziani a Qaraqosh, davanti a una tazza di tè o del tradizionale caffè arabo lungo e granuloso, fanno a gara per ricordare l’inferno dell’Ankawa Mall, uno scheletro in cemento armato nel sobborgo cristiano di Erbil che ospitava sei famiglie per baracca, fino a 50 persone per casa. Pieni di rughe e memorie, vestiti con i tradizionali abiti larghi e lunghi fino alle caviglie, la kefiah arancione o grigia avvolta in testa, mostrano con l’aiuto dei figli i siti su cui compulsavano ogni giorno le immagini satellitari delle loro città per cercare di capire da lontano che cosa restava delle case che si erano costruiti con le loro mani. 

Se molti di quei figli cercavano solo un modo per scappare in Francia, Canada o Australia, i padri non facevano che pensare alla terra dove intendevano ritornare. E mentre parlano, negli ampi salotti con i lunghi divani variopinti appoggiati alle pareti, gli aneddoti sull’Isis si mischiano facilmente a quelli del passato, perché la storia dei cristiani iracheni è fitta di persecuzioni, di esodi forzati e ritorni. 

C’è chi, tra una manciata di anacardi e una di semi di papavero, ricorda Tikrit, dove oggi non resta più nulla della fiorente comunità cristiana che la abitava fino al XVII secolo, e rivendica con una punta di risentimento che le donne musulmane impastano ancora il pane secondo la tradizione, usando tre dita, e che così, pur senza saperlo, pregano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Altri invitano a visitare il monastero dedicato a San Behnam, in parte distrutto dai mongoli e poi restaurato dagli stessi devastatori per paura di scatenare l’ira del santo. Altri ancora richiamano alla memoria le persecuzioni per mano dei persiani e gli innumerevoli martiri di epoca ottomana.

Rievocare il passato, per gli abitanti della Piana di Ninive, non è un esercizio necessario solo per rinvigorire l’orgoglio, ma anche per controbattere alla narrazione che si è affermata negli ultimi anni e che vuole i cristiani una minuscola minoranza nel paese mediorientale di 40 milioni di abitanti. Ricordare che la terra considerata la culla della civiltà, quella dove viveva Abramo quando Dio lo chiamò per iniziare la storia della salvezza, fu evangelizzata nel primo secolo da san Tommaso, uno dei dodici apostoli, e che gli inni che risuonano nelle chiese sono in aramaico, prima ancora che in arabo, serve a contrastare la freddezza implacabile dei numeri. E i numeri dicono che i cristiani prima dell’invasione americana nel 2003 erano 1,5 milioni, oggi sono invece ridotti a 200 mila, meno dell’1 per cento della popolazione, costituita per il 55 per cento circa da musulmani sciiti e per il 45 da sunniti. L’avvento della furia distruttrice dei tagliagole non ha fatto che peggiorare un fenomeno già in atto e se non fosse stato per la Chiesa, e l’eroismo di alcuni sacerdoti, forse oggi la comunità cristiana in Iraq sarebbe scomparsa al pari di quella ebraica.

Il prete ricostruttore

«Abouna! Abouna!». Appena scorge dall’altra parte della strada padre Georges Jahola, un rivenditore ambulante di caffè si getta in mezzo alle auto con il suo bricco dorato, costringendole a inchiodare, pur di offrire una tazza del suo nero liquido fumante al sacerdote. Padre Georges è sempre indaffarato e di caffè ne ha bevuti già troppi, ma non può rifiutare. E del resto è abituato: in qualità di presidente del Comitato di ricostruzione di Baghdeda (questo è il nome in aramaico della città che i cristiani preferiscono a Qaraqosh, di derivazione turca) è una celebrità. Se su 50 mila cristiani che abitavano in città nel 2014, prima del passaggio dell’Isis, oggi sono tornati in 25 mila, gran parte del merito è suo. Nonostante vivesse a Roma già da dieci anni, nel 2016 il sacerdote siro-cattolico decise di rientrare in Iraq per aiutare la sua gente. Nell’ottobre di quell’anno, dopo la liberazione di Qaraqosh, fu uno dei primi a rimettere piede in quella che era a tutti gli effetti una «città fantasma»: «Un terzo delle case era stato distrutto, un terzo bruciato e le altre abitazioni danneggiate. Non c’erano né elettricità né acqua. Le strade erano ricoperte da macerie. Chi avrebbe mai accettato di tornare?». Mentre parla a Tempi, tira fuori una pila di carte e ricopre la scrivania del suo ufficio di mappe e piantine disegnate a mano. «Abbiamo fatto un censimento di tutte le case presenti a Qaraqosh e nelle altre città della Piana di Ninive, abbiamo analizzato i danni e calcolato i costi per ricostruirle. Poi abbiamo cercato i fondi».

Il risultato dopo quattro anni di lavoro infaticabile è sotto gli occhi di tutti: su 6.936 abitazioni distrutte o danneggiate a Qaraqosh, il 57 per cento è tornato abitabile. La percentuale nelle altre città della Piana di Ninive è simile. Nella maggior parte dei casi, il Comitato ha coperto i due terzi dei costi, circa 10 mila euro ad abitazione, mentre le famiglie proprietarie della casa hanno messo il resto. 

Senza l’intervento della Chiesa locale – aiutata da Vaticano, conferenze episcopali di mezzo mondo, Ong, fondazioni come Aiuto alla Chiesa che soffre, associazioni cattoliche e un solo Stato europeo, l’Ungheria – nessun cristiano sarebbe tornato. Di certo non Zaki, l’insegnante che militava nell’esercito: «I jihadisti avevano interamente bruciato la mia casa». «Qui», dice mentre ci accoglie nella sua abitazione indicando un’area vuota al centro dell’ingresso, «c’era una meravigliosa libreria di legno scuro ad arco con pezzi unici, alcuni volumi di Tolstoj stampati in Libano negli anni Cinquanta, i primi esemplari, costosissimi. Questa era la casa di mio padre, che spese tutto quello che aveva per costruirla. Quando tornai la prima volta e la vidi in fumo, scoppiai a piangere. Ero pieno di dolore e di rabbia».

Le cicatrici della barbarie

A Faris Nashwan è andata un po’ meglio. La sua casa, molto elegante e situata nella zona centrale della città, venne scelta dai jihadisti per instaurarvi un centro di comando. A parte i soffitti e la cucina, il resto non è stato danneggiato. «Negli anni passati in esilio ci siamo dovuti trasferire tre volte. È stata un’esperienza infernale, scioccante», ricorda l’uomo, padre di due figli e dirigente di banca di 43 anni. «Abbiamo pensato tante volte di andarcene dall’Iraq, ma era molto costoso e poi come potevo lasciare casa mia?». Se oggi è tornato a Qaraqosh, «è solo merito della Chiesa. Ci ha dato da vivere durante l’esilio e ci ha aiutati a sistemare tutto qui. Se fosse dipeso dal governo, ce ne saremmo già andati per sempre».

Nella Piana di Ninive la pensano tutti come Faris. Il governo non ha versato neanche un dinaro ai cristiani per ricostruire le loro case, né si è impegnato ad asfaltare le strade distrutte dalla guerra e piene di crateri. All’entrata della città, il grande edificio dell’università, ormai ridotto a un rudere diroccato, giace ancora a lato della strada come l’hanno lasciato i jihadisti: completamente sventrato dalle bombe. Sulle macerie si avventurano solo i greggi di pecore per brucare l’erba che spunta tra le rovine. Al pari dell’università, troppe case sono ancora disabitate e presentano sul portone o il muretto di cinta la “n” araba con cui l’Isis era solito marchiare le proprietà dei “nazareni”, da requisire nel nome dello Stato islamico. 

E l’impronta del passaggio degli islamisti non si limita certo alle case. Della chiesa di San Giuseppe, interamente bruciata, è rimasto solo lo scheletro di cemento. Il campanile della chiesa dei Santi Behnam e Sarah, fatto saltare in aria dai terroristi con la dinamite, è crollato. La torre divelta è ancora lì, rovinata a terra sul fianco sinistro della chiesa, mentre le immagini dei santi che campeggiano in un bassorilievo sopra il portone di ingresso si possono solo intuire dopo essere state picconate con furia iconoclasta. Non c’è luogo sacro nelle città passate sotto il Califfato che non sia stato devastato: anche la chiesa dell’Immacolata Concezione, dove papa Francesco ha recitato l’Angelus durante la sua visita in Iraq dal 5 all’8 marzo, era stata completamente bruciata, mentre le colonne del cortile interno, utilizzato come poligono di tiro, risultano ancora scarnificate dall’accanimento delle mitragliate. 

«I terroristi torneranno»

Ma il marmo può essere pulito, gli altari ricostruiti, le statue riedificate, le icone dipinte nuovamente: ed è quello che i fedeli della Piana di Ninive hanno fatto. Tante chiese oggi sono tornate a splendere. «La nostra San Addai ora è molto più bella di prima», esclama orgoglioso padre Thabet Yousif, energico sacerdote caldeo di Karamles, villaggio cristiano a pochi chilometri da Qaraqosh, mentre indica le pareti bianchissime delle navate e le belle travi in legno del soffitto. «Quando l’Isis arrivò io sono stato l’ultimo ad andarmene, subito dopo aver ritirato il Santissimo Sacramento. E meno male che l’ho fatto, perché hanno sparato al tabernacolo, oltre ad aver bruciato la chiesa e abbattuto la croce sul campanile». Anche il risultato dell’odio più feroce può però essere trasformato in simbolo di speranza. Lo sa bene padre Thabet, che con il legno delle panche bruciate dallo Stato islamico, che aveva sempre conservato come reliquie, ha realizzato la croce utilizzata dal Papa per pregare tra le rovine di Mosul. A preoccupare il sacerdote non sono dunque soltanto gli edifici in rovina, le strade impraticabili, l’elettricità che il governo fornisce per tre ore al giorno, l’acqua calda che in tante case manca o l’assenza di lavoro che allontana i giovani. «Noi siamo preoccupati perché troppi cristiani non sono tornati», spiega. «Prima del 2014 qui vivevano 820 famiglie cristiane, oggi 345». 

Oltre ai problemi economici, è il tema della sicurezza ad angosciare i cristiani. È vero che all’entrata di ogni città c’è un check point militare, ma il comportamento dell’esercito iracheno e dei peshmerga curdi non può essere dimenticato. «Nell’agosto del 2014, mentre l’Isis ci invadeva, l’esercito e i curdi ci dissero di restare e di non temere perché ci avrebbero difeso. Ma proprio mentre ci rassicuravano, stavano ripiegando di nascosto. Senza avvisarci», ricorda padre Thabet. Se poi lo Stato islamico è stato militarmente sconfitto tra il 2016 e il 2017, «la mentalità estremista non è affatto morta in questo paese. È viva e tutti si aspettano che prima o poi i terroristi torneranno. E se non ci cacceranno i jihadisti, saranno gli shabak a farlo, con il benestare del governo. Le loro bandiere nere ormai sono dappertutto». 

«Dopo il Califfato, lo Shabakistan»

La strada che da Karamles conduce a Bartella, lungo la direttrice che porta fino a Mosul, è la fotografia perfetta di quanto afferma il sacerdote caldeo. Una lunga teoria di drappi neri, appesi a ogni lampione e palo della luce, costeggia il traffico delle auto. Mano a mano che ci si avvicina alla città che fino agli anni Novanta era interamente cristiana, si moltiplicano i cartelloni che inneggiano agli ayatollah sciiti e al generale iraniano ucciso dagli americani nel gennaio 2020, Qasem Soleimani. L’obiettivo di bandiere, gigantografie e scimitarre non è commemorare qualcuno, bensì inviare un messaggio ai cristiani della città: «Vogliono metterci pressione, è come se dicessero: “Qui ora comandiamo noi, dovete andarvene”». Padre Behnam Benoka è nato a Bartella nel 1978 e oggi è parroco della chiesa di San Giorgio, all’entrata della città. «Quello che stanno facendo ha un solo nome: pulizia etnico-religiosa», spiega. «Saddam Hussein è stato il primo a trasferire qui intere famiglie di shabak, confiscando la terra ai cristiani e costruendovi sopra case e moschee per i musulmani. Ora sono aumentati di numero e vogliono cacciarci dalla nostra città per islamizzarla e fondare uno Shabakistan». 

Se fino al 2003 il dittatore teneva a bada i vari gruppi etnici, a partire dall’invasione americana i conflitti sono esplosi. Prima dell’invasione dell’Isis, gli shabak erano già cresciuti fino a rappresentare il 40 per cento della popolazione della città. Oggi, dal momento che solo 7 mila cristiani circa sono tornati a Bartella, la metà rispetto a pochi anni fa, i musulmani sono divenuti maggioranza e le strade sono controllate da una milizia shabak. «Hanno violato la legge per invaderci demograficamente», insiste padre Behnam. «Ora costringono i negozi dei cristiani a chiudere, per le strade molestano le nostre donne. Nel 2018 un commando di shabak si è presentato davanti alla chiesa armato di kalashnikov, sparando in aria, poi ha fatto irruzione dentro i locali della parrocchia, terrorizzando i fedeli. Nessuno è stato ferito, lo scopo era lanciare un avvertimento: dovete andarvene».

Francesco e il sangue dei martiri

Crisi economica, paura di nuovi attentati, islamizzazione forzata: sono queste le tre spine che spingono molti cristiani ad andarsene e impediscono ad altri di tornare. Nella Mosul sventrata dai raid aerei, dove le chiese come quella siro-ortodossa di San Efrem sono state trasformate in depositi di bombe dai jihadisti, dove la città vecchia, orgoglio dell’Impero ottomano, giace ancora in rovina nonostante siano passati quattro anni dalla fine della guerra, sono tornati circa 250 cristiani. Dieci anni fa erano 50 mila. Mahmoud Hadi, 51 anni, musulmano sunnita, si aggira tra le macerie della città vecchia, sgranando meccanicamente un rosario islamico blu cielo. Una Ong ha restaurato la sua casa e lui ha deciso di tornare, non avendo i soldi per trasferirsi come la maggior parte dei suoi concittadini sulla riva sinistra del fiume Tigri, meno danneggiata dalla guerra. «Il governo sciita non ha fatto nulla in questi anni per noi. Se moriamo tutti a loro non importa. Io ora ho di nuovo la mia casa e sono contento, ma mi mancano i cristiani. Sono persone eccellenti, sono nostri fratelli e io vorrei che tornassero. Spero che la visita del Papa li incoraggi a rientrare: noi li aspettiamo».

Se si considerano le difficoltà che devono affrontare i fedeli, si capisce perché papa Francesco è «venuto in pellegrinaggio» in Iraq per esaltarne la fede «eroica» e ringraziarli, invitarli a non abbandonare «la terra dei vostri padri», ricordando che «il sangue dei martiri è sempre seme di nuovi cristiani». Per realizzare questo viaggio «storico e miracoloso», il primo di un papa in Iraq, Francesco ha sfidato la guerra, il terrorismo e la pandemia di Covid-19. E tutto il paese l’ha ripagato con un’accoglienza gioiosa e festante come raramente se ne sono viste in passato. Il Pontefice ha mostrato per primo come andare incontro all’altro, facendo visita alla massima autorità sciita, l’ayatollah Ali al Sistani. Una scelta importante non appena per il dialogo interreligioso, ma anche perché, come sussurrano molti sacerdoti, «se c’è qualcuno che può mettere un freno all’invasione sciita è proprio lui». Dopo tre giorni passati a infondere coraggio a un gregge ridotto all’osso, ma capace di una fede incrollabile, Francesco nell’omelia della grande Messa a Erbil ne ha indicata la qualità principale: «La Chiesa in Iraq è viva e sta facendo molto per proclamare questa meravigliosa sapienza della croce diffondendo la misericordia e il perdono di Cristo».

«Mai stati trattati come uomini»

È proprio quello che ha fatto Duha Sabah Abdallah. Uno dei tre bambini morti nel primo attentato dell’Isis a Qaraqosh, la mattina del 6 agosto 2014, era suo figlio. Si chiamava David e aveva 4 anni. La sua foto, che lo ritrae con i capelli castani corti, vestito con una camicia a scacchi blu, è l’unica appesa insieme alle icone al muro del salotto della sua povera casa, arredata con qualche divano senza braccioli e schienale, scaldata solo da una stufetta elettrica. «Senza il sacrificio di mio figlio, quella mattina, nessuno di noi avrebbe compreso il pericolo che correvamo. Saremmo tutti rimasti a Qaraqosh e avremmo fatto la fine dei yazidi: l’Isis ci avrebbe sterminati tutti». 

Si tormenta le mani Duha, rifiuta di rispondere a tante domande su quel mattino per non dover ricordare l’orrore, ma non abbassa mai i suoi grandi occhi neri. È il marito Adeeb, 50 anni, a proseguire nel racconto della loro epopea: i funerali di David il giorno dell’attentato, la fuga a Erbil di notte, il trasferimento in Libano e poi finalmente l’accoglienza da parte della Francia, dove i genitori insieme ai loro quattro figli rimasero per due anni e tre mesi, sperimentando «come dovrebbe davvero essere la vita. In Iraq, invece, non ci siamo mai sentiti trattati come esseri umani».

La nostalgia di casa, soprattutto la voglia di rivedere la tomba di David, convinsero Duha e Abdallah a tornare a vivere a Qaraqosh. Una scelta coraggiosa, di cui però oggi sono pentiti: «Voglio essere sincera, sarà difficile da sentire ma la verità è che abbiamo sbagliato e oggi vorremmo fuggire di nuovo in Francia», prosegue la mamma di 37 anni. «Qui ci odiano perché siamo cristiani: abbiamo dovuto pagare una tangente per ottenere il certificato di morte di nostro figlio e la nostra Sarah, che è disabile, è stata mandata via da scuola. La mentalità dell’Isis qui non è mai morta». 

«Non abbiamo perso la speranza»

Nonostante la delusione, lo sconforto e l’ingiustizia, Duha, l’unica fedele che ha parlato davanti al Papa durante la sua visita in Iraq, dovendo decidere che cosa raccontargli nei pochi minuti a disposizione, ha scelto un argomento sorprendente: «Noi abbiamo perso la cosa più cara che avevamo al mondo e abbiamo capito che tutti i beni materiali di questo mondo non valgono niente. Io non sono arrabbiata con Dio, perché non è colpa sua se mio figlio è morto. Anzi, la fede mia e di mio marito è cresciuta, perché abbiamo capito che è l’unica cosa che conta. Io ho perdonato i jihadisti per avere ucciso mio figlio. Non tocca a me giudicarli, sarà Dio a farlo. La Chiesa ci ha educato a perdonare ed è quello che abbiamo fatto».

Duha non è l’unica a pronunciare una parola che in Iraq sembrano conoscere in pochi. Anche Zaki non prova alcun rancore: «Ho perdonato i terroristi fin dal primo momento, perché non sanno quello che fanno. Gesù ha dato l’esempio, io l’ho solo imitato. Quando percepisci l’amore della Chiesa ogni singolo giorno della tua vita, tutto è possibile. Noi cristiani non abbiamo perso la speranza». Appena finisce di parlare entra la moglie, le mani intrecciate sulla pancia già pronunciata. «Aspettiamo il terzo figlio. Nascerà tra cinque mesi».

@LeoneGrotti

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