Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Questo raid coronato da grande successo contribuirà a degradare l’Isis molto più degli attacchi aerei e delle operazioni di terra alleate degli ultimi mesi. Questo raid rappresenta una schiacciante sconfitta che danneggia sia le operazioni di terra dell’Isis sia la sua capacità di farsi pubblicità e attirare un numero di combattenti volontari senza precedenti». Le ultime parole famose di uno dei senior fellow del Foreign Policy Research Institute di Philadelphia, un think tank che fra i suoi affiliati annovera o ha annoverato gente come Henry Kissinger, Bernard Lewis, Alexander Haig, James Schlesinger, Robert Kaplan.
Erano passate appena 24 ore da questa dichiarazione relativa al blitz siriano con cui le Delta Force americane avevano ucciso un fino ad allora sconosciuto dirigente tunisino dell’Isis –Abu Sayyaf, nome di battaglia – e asportato documentazione cartacea e informatica dal suo covo, che Ramadi cadeva nelle mani delle truppe del califfato. A nulla è servito schierare a difesa della città, che si trova a 110 chilometri da Baghdad, la divisione d’élite dell’esercito iracheno, corrispondente alla vecchia Guardia repubblicana di Saddam Hussein, né cinque mesi di bombardamenti aerei della coalizione a guida americana (dal 24 novembre al 16 maggio) sulle linee avanzate dei jihadisti, né la partecipazione di milizie tribali sunnite: il 17 maggio, a cinque mesi e quattro settimane dall’inizio dell’assedio, Ramadi è caduta nelle mani dell’Isis, che il giorno dopo ha passato per le armi centinaia di prigionieri catturati sul posto. Contemporaneamente, a 500 chilometri di distanza altre colonne dell’Isis davano l’assalto a Palmyra, gioiello archeologico in territorio siriano ma anche sede di un aeroporto militare e centro nevralgico per il controllo della Siria sud-orientale, e in meno di una settimana costringevano le forze governative ad abbandonarlo nelle loro mani.
All’indomani del comunicato della Casa Bianca che specificava che l’eliminazione del dirigente tunisino dell’Isis avrebbe causato una flessione delle entrate da esportazioni petrolifere che finanziano il gruppo terroristico, il New York Times ha pubblicato un prospetto che smentisce l’amministrazione Obama: l’Isis non ha problemi di finanziamento anche se negli ultimi mesi le sue entrate da contrabbando di idrocarburi sono molto diminuite. Per mesi si è scritto che lo Stato islamico incassava 1 milione di dollari al giorno dall’esportazione di petrolio e gas sotto il suo controllo. Dopo la campagna aerea contro le sue installazioni petrolifere questa entrata si sarebbe ridotta a 2 milioni di dollari alla settimana. In compenso, «lo Stato islamico incassa più di 1 milione di dollari al giorno in estorsioni e tasse. I salari degli impiegati governativi iracheni subiscono un prelievo del 50 per cento, che ha portato nelle casse 300 milioni di dollari l’anno scorso. Le società possono vedere tassati i propri profitti fino al 20 per cento. Nel momento in cui le entrate da altri settori – banche e petrolio – sono andate in stallo, lo Stato islamico ha aggiustato le aliquote sulle altre voci, in modo che ora le varie tassazioni rappresentano una proporzione più alta delle sue entrate».
I veri interessi americani
D’accordo. Ma detto questo, le cose stanno andando davvero così male per gli interessi americani in Medio Oriente? È una bestemmia dire che l’Isis – al netto delle teorie complottiste frutto dell’idiosincrasia per l’America e del razzismo inconscio per il quale gli arabi e i musulmani non saranno mai capaci di progettualità politico-militare originale – è il provvidenziale strumento che permette agli Stati Uniti di realizzare gli unici obiettivi di politica estera che una potenza egemonica mondiale può permettersi di questi tempi? «L’America è una religione che non ha i mezzi del suo credo. Se volesse adeguare gli strumenti al suo credo, farebbe bancarotta», leggiamo nell’editoriale dell’ultimo numero di Limes, dedicato all’analisi dell’assetto interno dei poteri americani. «Oggi una quota rilevante di terrestri, inclusi alcuni fieri cittadini degli Stati Uniti, si concentra sul crescente iato fra retorica e fatti. Per concluderne che Washington resterà per qualche tempo il Numero Uno, forse, ma già ora subisce il mondo assai più di quanto possa o voglia ordinarlo».
Le convulsioni del mondo arabo e musulmano sono uno dei teatri dove più chiaramente si è rivelata l’impotenza americana a ordinare il mondo: prima il progetto neo-imperiale di G. W. Bush di rimodellare il Medio Oriente facendo leva sull’hard power (guerra con truppe sul terreno e governo diretto) poi il tentativo di imperialismo culturale camuffato di Barack Obama (soft power applicato alle Primavere arabe più droni alla bisogna) sono falliti miseramente. George Friedman di Stratfor riassume così la correzione di strategia del secondo mandato obamiano: «Mentre ha sentito che doveva reagire all’assertività della Russia, Washington ha cercato di esporsi al minimo in Medio Oriente. Riconoscendo i limiti del loro potere, gli Stati Uniti sono giunti a vedere nelle quattro potenze indigene regionali – Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele – i soggetti che portano la responsabilità primaria della stabilità nella regione e che fanno ognuno da contrappeso alla potenza degli altri».
Dismesse le ambizioni messianiche del passato, gli Stati Uniti si comportano come tutte le potenze egemoniche della storia, dall’Impero Romano in poi: per dominare occorre far sì che gli avversari potenziali si combattano fra di loro, accendere la rivalità fra di essi perché non pensino ad allearsi contro l’egemone, lasciargli spinose crisi locali da gestire e soprattutto operare perché non emerga un egemone regionale. Gli egemoni regionali, infatti, poi portano la sfida all’egemone globale.
Nell’ultimo quarto di secolo due regimi mediorientali sono stati percepiti – e non a torto – come minaccia reale agli interessi americani: l’Iran di Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein. Il primo è stato contenuto con successo, prima impelagandolo in una lunga e sanguinosa guerra con l’Iraq, poi con le sanzioni economiche. Il secondo è stato abbattuto, a caro prezzo, nel 2003 dopo dodici anni di pressioni. In America Jeff Bush viene criticato con veemenza o sbeffeggiato per la politica che suo fratello George William ha praticato nei riguardi dell’Iraq, ma in realtà i Bush potrebbero mettersi sull’attenti davanti al popolo americano e gridare «missione compiuta!»: l’Iraq è stato azzoppato per sempre, la sua perdurante instabilità è la garanzia che non rappresenterà mai più una minaccia per nessuno.
Oggi il rafforzamento e l’irradiazione minacciosi dell’Isis, insieme al collasso di paesi come Iraq, Siria, Libia e Yemen, offrono agli Stati Uniti la possibilità di praticare la politica dell’equilibrio di potenza a costi infinitamente minori di quelli sostenuti ai tempi di Bush padre e figlio. Non c’è bisogno di progettare costosi “regime change” nelle quattro potenze regionali elencate da Friedman (ce ne sarebbe una quinta, l’Egitto, che però non ha ambizioni egemoniche e quindi non rappresenta una minaccia, in quanto è tutta impegnata a mantenere la propria stabilità interna), poiché esse sono impegnate a “marcarsi” fra loro, principalmente interferendo nelle crisi dei quattro paesi collassati prima citati.
Una nuova fase del conflitto
Siria e Iraq non sono alla vigilia della caduta dei rispettivi regimi sotto la pressione delle vittorie militari dell’Isis, come scrivevano i quotidiani italiani, ma alla vigilia di un’altra fase della loro disgregazione in quanto stati e della subordinazione delle entità territoriali minori risultanti alle potenze straniere regionali. La caduta di Ramadi non è un apologo della forza dello Stato islamico, ma della debolezza dello Stato iracheno.
Le forze armate governative restano un feudo di clientelismo sciita senza professionalità né qualità militari, dopo la “debaathificazione” voluta dagli americani e perseguita dai governi di Baghdad a dominante sciita i migliori ufficiali sunniti sono passati con l’Isis e con altri gruppi ribelli. Gli sciiti veramente motivati a combattere non si rivolgono all’esercito, ma alle molte milizie fiorite al tempo della guerra civile fra sunniti e sciiti del 2006-2007 e rifiorite dopo l’appello alla “difesa sacra” contro l’Isis dell’ayatollah al Sistani nel giugno 2014. Quasi tutte sono addestrate e controllate dai Guardiani della Rivoluzione iraniani.
All’Iran si è rivolto anche il Puk, il partito curdo iracheno di minoranza, rivale del Pdk che controlla il governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) con sede a Erbil e che è in buoni rapporti con la Turchia. Il Pdk ha fatto il pieno di armi inviate dai paesi occidentali in occasione della crisi dell’estate scorsa e anche di addestratori; per riequilibrare i rapporti di forza il Puk si è gettato fra le braccia dell’Iran. Invece il progetto di resuscitare il Risveglio sunnita fra le tribù della provincia di Ramadi, che il generale Petraeus aveva armato e finanziato con successo nel 2007 in funzione anti-al Qaeda, è fallito per il semplice motivo che né Baghdad né Washington stavolta se la sono sentita di armare le tribù sunnite: hanno avuto troppa paura che le armi finissero in mano all’Isis o che le tribù passassero dall’altra parte. Ormai i sunniti iracheni non hanno alternative: o stare dalla parte dell’Isis, o mettersi al servizio dell’Arabia Saudita o della Turchia.
Il regime di Assad resiste
In Siria le cose non vanno diversamente. Le recenti sconfitte delle forze governative – a Palmyra di fronte all’Isis e nel governatorato di Idlib di fronte alla coalizione salafita-alqaedista di Jaysh al Fatah – stanno già facendo versare inchiostro per annunciare l’imminente caduta del regime di Bashar el Assad. Questo è altamente improbabile (e indesiderabile per la popolazione civile delle principali aree sotto controllo governativo), perché alle vittorie dell’opposizione corrisponde un riposizionamento delle forze governative e filo-governative. Palmyra e le località vicine sono cadute perché all’inizio di maggio la più forte brigata della Guardia repubblicana è stata spostata dalla regione di Der Ezzor a quella della Ghouta, a oriente di Damasco. Intanto col contributo determinante degli Hezbollah libanesi la regione del Qalamoun, al confine fra Siria e Libano, è stata messa in sicurezza.
Il regime resiste, ma su un territorio più ridotto e appoggiandosi sempre più a milizie straniere sponsorizzate dall’Iran: non solo gli Hezbollah libanesi, ma volontari sciiti dall’Iraq e dall’Afghanistan. I ribelli islamisti guadagnano posizioni perché hanno cominciato a coordinarsi, dopo che Turchia e Arabia Saudita si sono coordinate fra loro nel sostenerli, in seguito al summit fra Erdogan e re Salman a Riyadh in marzo.
Insomma, le potenze regionali si stanno facendo carico della “stabilità” della regione, come Obama auspica da tempo. Ne faranno le spese le minoranze etniche e religiose nei vari paesi, in prima fila i cristiani.
Foto Ansa/Ap