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Non è solo una questione di sgravi. Per battere la disoccupazione occorre che le imprese producano di più

Come leggere i dati del Governo e quelli dell'Istat? Tre domande a Michele Tiraboschi, direttore del centro studi Adapt-Marco Biagi.

Chiara Rizzo
01/04/2015 - 2:00
Economia
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++ Disoccupazione Mezzogiorno al 21,7%, per giovani 60,9% ++Settantanovemila contratti a tempo indeterminato in più nei primi due mesi del 2015 oppure 44 mila occupati in meno a febbraio rispetto al mese di gennaio? Da una parte ci sono i dati diffusi pochi giorni fa dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti e da Matteo Renzi, sui contratti a tempo indeterminato raccolti con le comunicazioni obbligatorie al ministero. Dall’altra, i dati dell’Istituto di statistica che mensilmente monitora il mercato dell’occupazione: «Ma si tratta di numeri che, come ha sottolineato l’Istat, sono diversi tra loro e non possono essere paragonati», spiega a tempi.it Michele Tiraboschi, direttore del centro studi comparati Adapt-Marco Biagi.

Tiraboschi, ci aiuti a capire come stanno le cose. Ci sono più occupati o ce ne sono meno?
Anzitutto ricordo che questi dati non hanno niente a che fare con il Jobs act, che non è ancora valutabile perché è entrato in vigore solo all’inizio di marzo, mentre sia i dati del governo sia quelli di Istat sono riferiti al periodo precedente. In secondo luogo, alcuni dati sono stati divulgati dal governo forse in modo non troppo opportuno: Renzi e Poletti li hanno usati per infondere fiducia e, soprattutto, per diffondere l’idea che le riforme del governo sono efficaci. Se si assumono come riforma gli sgravi fiscali previsti per chi assume a tempo indeterminato nella legge di Stabilità, allora si può festeggiare il fatto che ci sia stato un boom dei contratti a tempo indeterminato del +32 per cento. L’Istat, invece, ha diffuso un altro tipo di dati, cioè le serie storiche sul complesso dell’occupazione. Lo stesso istituto ha sottolineato questi dati sono completamente diversi e non sono paragonabili. Al netto della propaganda politica del governo, infatti, i dati dell’Istat sollevano una domanda. Bisogna chiedersi perché l’Italia fatica a crescere e perché è così difficile stimolare l’occupazione. Sicuramente, infatti, i dati divulgati dal governo non sono riferibili a nuovi contratti ma alla conversione di vecchi contratti a termine, per gli sgravi fiscali introdotti dalla legge di Stabilità.

Se è così, posto che gli sgravi proseguiranno per tutto il 2015, ci potrà essere nel corso dell’anno un aumento delle assunzioni?
Sicuramente gli sgravi verranno utilizzati ancora dalle imprese per assumere, e in maniera abbondante. Ma dobbiamo considerare che anche in anni di crisi si firmano milioni di contratti, e allora bisogna chiedersi se questi sgravi porteranno davvero ad occupazione aggiuntiva, o se questi nuovi contratti si sarebbero fatti comunque. I dati Istat diffusi oggi ci rivelano che nel mercato del lavoro c’è un trend di mobilità: quello che sta accadendo, a mio avviso, è che ci sono molte persone con i contratti a tempo determinato o di collaborazione e che le aziende con gli esoneri più facilmente li fanno passare adesso al tempo indeterminato. Per avere invece occupazione maggiore, il vero tema da porre è se le imprese producono in più e se nel mercato tira di più la domanda: solo in questi casi davvero scenderebbe la disoccupazione, a prescindere dagli sgravi, e si rimetterebbe in moto una crescita strutturale per il paese.

Fa molto discutere la decisione del colosso farmaceutico Novartis che, qualche giorno fa, ha deciso di procedere alle assunzioni di tredici lavoratori a Varese in un modo molto particolare. Perché secondo lei si tratta di un caso emblematico?
Qualche giorno fa a Varese il colosso della farmaceutica Novartis ha assunto alcuni lavoratori provenienti da alcuni sue sottodivisioni con un accordo sindacale per cui riconoscerà ai nuovi assunti l’articolo 18 com’era prima del Jobs act, anziché il nuovo contratto a tutele crescenti. Questa vicenda mostra che l’applicazione della riforma del lavoro non è così lineare. Cosa significa infatti? Che nella realtà concreta le aziende non sono concentrate sul tema dei licenziamenti e che quando assumono non pensano tanto all’articolo 18, ma alla produttività, a come mantenere buoni rapporti con i nuovi lavoratori e anche ad avere un clima di serenità con i sindacati. Ecco perché Novartis anziché licenziare e riassumere con le nuove regole, come legittimamente avrebbe potuto fare, ha scelto di firmare un accordo sindacale. Dal 7 marzo quando è entrato in vigore il Jobs act, è probabile che i lavoratori più qualificati saranno più perplessi a lasciare il lavoro e a perdere le tutele previste dall’articolo 18. Le aziende come Novartis, avendo bisogno di lavoratori qualificati, troveranno probabilmente più conveniente un accordo sindacale per mantenere le vecchie tutele anziché il contratto a tutele crescenti. Insomma il Jobs act paradossalmente finirà per lasciare proprio i lavoratori più “deboli” con minori tutele. Saranno loro a subìre il contratto a tutele crescenti.

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