Sette anni fa veniva ucciso Hrant Dink, giornalista che disse a Tempi: «Mi perseguitano perché sono armeno»
Il 19 gennaio di sette anni fa veniva ucciso in Turchia il giornalista turco-armeno Hrant Dink da alcuni giovani nazionalisti turchi. Il direttore del giornale Agos aveva coraggiosamente scritto più volte articoli sui diritti dei curdi e sul massacro degli armeni. Per questo, dopo aver ricevuto diverse minacce di morte, è stato ucciso nel 2007 senza che lo Stato gli offrisse nessuna protezione. Il processo che deve accertare i mandanti politici del suo omicidio è stato riaperto lo scorso 15 maggio.
Nel settimo anniversario dalla morte ripubblichiamo l’intervista che Dink, un mese prima di essere assassinato, ha rilasciato all’inviato di Tempi Rodolfo Casadei.
Hrant Dink, giornalista armeno direttore del settimanale Agos di Istanbul, è uno dei più lucidi analisti della realtà politica turca e un bersaglio ricorrente di un sistema giudiziario ostile alla libertà di espressione. In questi giorni si trova sotto processo per la quarta volta negli ultimi cinque anni solo per aver contestato una precedente sentenza di condanna a sei mesi con la condizionale.
Hrant Dink, perché tutti questi processi contro di lei?
Perché sono il tipo di armeno che la Turchia non ama: parlo molto, cerco le mie radici, mi batto per i miei diritti di cittadinanza e per la democratizzazione del paese. Da qui i miei guai giudiziari.
Perché la questione armena continua a causare reazioni tanto ipersensibili in Turchia?
Vede, quella turca è un’identità recente, fondata su una storia e una cultura nuove. In questa storia il posto dell’armeno è quello del cattivo. Se voi contraddite questa narrazione, mettete in crisi l’identità turca. Ci sono anche altre paure, come quella che gli armeni vogliano sottrarre territorio alla Turchia, ma la principale paura è la demolizione dell’identità turca.
Che ne pensa della legge francese che punisce chi nega il genocidio degli armeni?
È una legge imbecille, che danneggia la causa armena. Bisogna arrivare a un riconoscimento internazionale del genocidio armeno, ma non al prezzo di limitare la libertà di espressione. Se si vuole che i turchi cambino, si deve poter parlare con loro; si devono togliere dalla loro testa le idee sbagliate e metterci quelle giuste, e questo si può fare solo col dialogo. La legge parte dal presupposto che questa gente sappia del genocidio, ma lo neghi; invece lo negano perché non ne sanno nulla. Io sono sotto processo perché scrivo che il genocidio è avvenuto: un processo imbecille come la legge francese. Bisogna insegnare ai turchi la verità, e questo non si fa con una legge antinegazionista.
Lei non è l’unico cittadino turco processato quest’anno per violazione dell’articolo 301 del Codice penale, «insulto all’identità turca»: siete stati quasi cento.
È una legge fatta per proteggere lo Stato dai cittadini, mentre abbiamo bisogno di leggi che proteggano il cittadino dallo Stato.
In Europa e sulla stampa turca si parla di un processo di islamizzazione del paese a opera del governo Erdogan. Cosa ne pensa?
È vero il contrario: l’islam in Turchia è in fase calante e questo coincide con un governo gestito da credenti. Il processo di democratizzazione che il paese sta vivendo è merito del governo islamico, e questa è una chance per la Turchia e per il mondo. Il vero pericolo non è l’islam, ma il nazionalismo. Il nazionalismo è sotto il controllo diretto dello Stato, che lo usa a suo piacimento. Adesso lo sta alimentando per indebolire il governo islamico in vista delle elezioni del 2007.
Secondo i più recenti sondaggi la percentuale di turchi favorevoli all’adesione alla Ue è in diminuzione. Perché, secondo lei?
È una delle conseguenze del ritorno di fiamma del nazionalismo, che ha per obiettivo la sconfitta di Erdogan alle elezioni.
In passato i nazionalisti turchi erano favorevoli all’adesione alla Ue, adesso sono incerti. Perché?
In Turchia è lo Stato che decide le politiche, non sono le forze politiche a decidere cosa farà lo Stato. E lo Stato ha deciso che la Turchia aderisca all’Europa. Il problema è che Turchia ed Europa sono spinte ad abbracciarsi non da una volontà positiva, ma da una somma di paure. Entrambe hanno paura di quello che potrà succedere alla Turchia se essa non aderirà all’Europa.
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