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Sessanta anni fa moriva Alcide De Gasperi, il più grande statista d’Italia

L'adesione all'Onu, alla Nato, la politica economica. De Gasperi, avversato dai comunisti, fu il nostro autentico padre della Repubblica. Anche se i suoi eredi popolari e moderati l'hanno quasi dimenticato

Andrea Camaiora
19/08/2014 - 4:00
Cultura
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Nel giorno del sessantesimo compleanno di Palmiro Togliatti, un Pci ancora completamente ubriaco del mito staliniano, celebrò con tutti gli onori la ricorrenza anagrafica del “Migliore”. L’Unità festeggiò quel giorno con un titolo a nove (!) colonne e un articolo di fondo di un intellettuale organico al partito, Antonello Trombadori, che si rivolgeva al festeggiato niente meno che così: «Dante, Michelangelo, Verdi, Cavour, Mazzini, Garibaldi, Tu, tutti li riassumi». Altro stile e altri tempi, evidentemente.

Fatto sta che per gli italiani, e in particolare per i moderati, non conta nulla che – mutatis mutandis – sessant’anni fa sia scomparso il nostro più grande statista, il salvatore della Patria, il nostro autentico padre della Repubblica, Alcide De Gasperi (1881 – 1954).

Pensiamo alla “nostra” politica estera. È stata tracciata da De Gasperi all’indomani della guerra e poi più o meno variamente interpretata dai suoi successori: Pella, Fanfani, Moro, Craxi, Andreotti, Prodi, Berlusconi. E qual è il solco tracciato dall’uomo politico trentino? L’adesione alle Nazioni Unite, alla Nato, all’Europa, ancora oggi capisaldi della politica internazionale.

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E se storicamente le scelte decisive e giuste, quelle che Berlusconi chiamerebbe le “scelte di campo”, appartengono ai moderati, la sinistra italiana ha avuto assai spesso torto. Vediamo alcuni esempi.

Anzitutto la Costituzione, che all’articolo 11 sancisce il rifiuto della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, e l’adesione alle Nazioni Unite. Quindi l’avvio del processo di unificazione europea. Infine la Nato. Va detto che – contrariamente a quanto sostenuto storicamente da parte della sinistra – non vi è contraddizione tra Onu e Nato. Ad autorizzarlo – come spiegano gli esperti di relazioni internazionali – è l’articolo 52 dello Statuto dell’Onu, laddove recita: «Nessuna disposizione del presente Statuto preclude l’esistenza di accordi od organizzazioni regionali per la trattazione di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che si prestino a un’azione regionale».

Eppure, al momento di essere compiute, la sinistra contrasta ferocemente le due grandi scelte di politica estera individuate dai moderati: l’Europa e la Nato. L’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, voluta dal governo De Gasperi, è osteggiata ferocemente. Il Presidente del Consiglio, nel dibattito alla Camera dei Deputati (marzo 1949), esprime l’unanime volontà del Governo di partecipare ai lavori conclusivi del Patto, per rafforzare la sicurezza nazionale «nella rinnovata pienezza della nostra sovranità». La base del Patto è l’obbligo dei suoi membri di contribuire alla comune difesa, in caso di conflitto armato la partecipazione italiana alla guerra resta prerogativa del parlamento, senza alcun obbligo d’intervento «automatico immediato». Esso può contribuire a garantire l’indipendenza italiana, diventare «un’espressione pacifica della solidarietà americano-europea» ed è un’integrazione concreta dell’Onu. Si tratta, osserva De Gasperi, di «un Patto di sicurezza, una garanzia di pace, una misura preventiva contro la guerra» e nessun paese deve temere questo accordo, se non ha «mire aggressive». L’Italia, «che si trova malauguratamente sulle linee strategiche fatali dei possibili conflitti mondiali, si assocerà a tutti gli sforzi per evitare una nuova e irreparabile sciagura».

Pietro Nenni respinge l’ipotesi dell’adesione: il Patto è un «salto nel buio» che mette al collo dell’Italia «il cappio delle alleanze militari» che costituiscono un atto di fiducia nell’America, il Patto Atlantico non è concepito nel quadro dell’Onu, comporta legami che rendono vincolante l’intervento comune con «effetto automatico», distrugge il sistema di sicurezza collettivo e ha carattere offensivo contro l’Urss (che pure a Stalingrado ha difeso se stessa, l’Europa e tutto il mondo). Nenni propone la strada della neutralità, che ha valso «alla Svizzera e alla Svezia 150 anni di pace».
Palmiro Togliatti afferma che il «Patto è aggressivo» e costituisce un pericolo per l’Italia, per i firmatari e persino «per tutto il genere umano». Gli Stati Uniti, infatti, non sono un paese amante della pace (dispongono di 484 basi militari all’estero, 256 nel Pacifico e 228 nell’Atlantico). I grandi gruppi monopolistici che hanno nelle loro mani la politica di Washington hanno interesse a scatenare un nuovo conflitto e Truman pretende «il dominio sul mondo intero» (come in precedenza hanno fatto gli hitleriani) nel nome di una presunta superiorità industriale ed economica. Il Patto sancisce una netta divisione dell’Europa e accentua i contrasti con Mosca, benché quest’ultima abbia dato molti segnali d’amicizia nei confronti del popolo italiano. Questa adesione viola la Costituzione ove essa parla di rifiuto della guerra come strumento di politica estera, poiché il Patto Atlantico è la premessa di azioni offensive militari contro il comunismo. Nessuno minaccia l’Italia: è pertanto sbagliato inserire il paese «in una formazione militare e di guerra». Da parte nostra, continua Togliatti, «noi non riconosceremo questo voto perché esso apre le porte del nostro territorio a basi militari di una grande potenza straniera imperialistica e ci coinvolge in una avventura pericolosa», perché con essa «l’Italia sarà oggetto e teatro di guerra. Ancora una volta (come nel 1911, nel 1915, nel 1935), le forze capitalistiche cercano di uscire dalle loro difficoltà con blocchi militari, con alleanze di guerra e con le guerre«.

E l’economia? Il nostro padre della Patria guidò anni di grande crescita con lungimiranza, in pieno accordo con il liberale Luigi Einaudi. Il riformismo centista degasperiano – riforma agraria, cassa per il Mezzogiorno, siderurgia rinnovata e competitiva, liberalizzazione degli scambi, scoperta e utilizzo del metano, piano casa – rese possibile il nostro miracolo economico. L’esplosione del consumo della carne, il processo di alfabetizzazione, la vendita delle auto, l’aumento delle ore dedicate al tempo libero. Sotto i governi De Gasperi e il centrismo abbiamo la crescita rapida degli indicatori socioeconomici, solida premessa ai “fuochi d’artificio” degli anni sessanta. Prendiamo l’aumento del consumo dei prodotti petroliferi, con la benzina che da 718.382 tonnellate nel ’48 passa nel ’53 a 2.281.046, con il gasolio che da 514.176 passa a 2.480.228, e con gli oli combustibili che passano da 916.303 a 5.798.951.

Ce n’è abbastanza per svegliare un centrodestra che scrive male e legge poco o nulla e stimolarlo a riscoprire De Gasperi, fondatore dell’Europa e della famiglia dei Popolari europei, insieme ad Adenauer e Schumann. A sinistra, ancora una volta, non hanno bisogno di inviti, né tantomeno si fanno problemi. L’ex ministro democratico Beppe Fioroni, non senza le sue ragioni, è arrivato a chiedere che la festa dell’Unità di quest’anno sia dedicata al grande statista democratico cristiano. Con buona pace di chi, in Italia, dovrebbe rappresentare il Ppe, e della memoria di De Gasperi se ne infischia.

* Andrea Camaiora è autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau)

Tags: andreottiBeppe FioronicraxiFanfaniluigi einaudiMoromoscanazioni uniteONUPalmiro TogliattiprodiSchumannSilvio Berlusconiursswashington
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