«Non giudicare né rimanere in silenzio: il silenzio sarà interpretato come disapprovazione». A tutti i manager del dipartimento di Giustizia americano (Doj) è arrivata di recente un’email, scritta dall’associazione dipendenti omosessuali (“Doj Pride Board”), che spiega come dovrebbero comportarsi in ufficio per far sentire del tutto a proprio agio i dipendenti Lgbt (Lesbo gay bisex trans). Secondo le linee guida, intitolate “Inclusione Lgbt al lavoro”, i manager non solo non devono discriminare i gay o evitare commenti negativi ma devono pubblicamente approvarli. La email, che sta facendo scalpore in America, è stata resa pubblica dal Liberty Counsel, che difende la libertà religiosa negli Stati Uniti, dopo che un manager del Doj ha rivelato tutto, sentendosi obbligato ad agire contro coscienza.
SE I GAY TI ASCOLTANO. Nel documento (leggilo qui) un impiegato omosessuale afferma: «Idealmente mi piacerebbe sentire e vedere il sostegno delle autorità, (…) il silenzio potrebbe significare disapprovazione. C’è ancora una mentalità secondo cui le tematiche Lgbt non sono appropriate per un luogo di lavoro». Il primo punto della linee guida consiglia: «Fai sempre conto che i dipendenti Lgbt e i loro alleati stiano ascoltando quello che dici (in una riunione o vicino al distributore d’acqua) o leggendo ciò che scrivi (in una email informale o in un documento formale), assicurati che il linguaggio utilizzato sia inclusivo e rispettoso. Non dare mai per scontato che tutti i dipendenti siano eterosessuali».
PER FARLI SENTIRE BENE. Per agevolare gli eventuali colleghi omosessuali, si legge al punto 5, «partecipa a eventi Lgbt sponsorizzati dall’“Orgoglio Doj” o dal Dipartimento, e invita altri (senza obbligarli) ad unirsi a voi». Ancora meglio se «mostri un simbolo nel tuo ufficio (un adesivo dell’Orgoglio Doj, una copia di questo opuscolo, etc.) che indichi che siamo in una zona di sicurezza».
PER NON DISCRIMINARLI. Per non rischiare di discriminare nessuno, i manager dovrebbero poi sempre utilizzare parole come «“compagno”, “partner” o “sposo”, anziché termini afferenti all’orientamento sessuale o all’identità di genere di una persona come “marito” e “moglie” (per esempio, sugli inviti a feste aziendali o quando si fanno domande a un nuovo dipendente sulla sua vita privata)». E se un manager sente un altro impiegato fare commenti discriminatori? «Opponiti con forza e rapidamente a battute e commenti riportati quando sono evidentemente avvenuti sul luogo di lavoro» e «comunica una politica di tolleranza zero per scherzi e commenti inappropriati, inclusi quelli relativi all’orientamento sessuale di una persona e all’espressione o all’identità di genere». In generale, bisogna sempre «parlare positivamente dei tuoi colleghi e amici o famiglie Lgbt» perché «la diversità è un valore», quindi si deve rendere «chiaro che per te si intende anche quella sessuale».
SE LUI DIVENTA LEI. Per questo motivo, «si deve usare il nome scelto da una persona transessuale e il pronome che è coerente alla sua autoidentificazione di genere». Se, dunque, un collega donna diventa uomo, bisogna sempre chiamarlo al maschile, come testimonia una transessuale: «Come donna transessuale (…) voglio essere riconosciuta per il mio vero genere», perché un conto è «l’imbarazzo nell’uso del pronome giusto da parte delle persone che mi conoscevano prima della transizione», un altro è «quando dopo anni le persone continuano a usare quello sbagliato».
LA CHIESA. Il Liberty Counsel, a cui si è rivolto il manager del dipartimento, protegge la libertà religiosa ed è impegnato anche a difendere quanti hanno fatto causa al governo per l’obbligo di pagare ai propri dipendenti assicurazioni inclusive dell’aborto e della contraccezione. Proprio per via di questo provvedimento di Obama i vescovi americani stanno organizzando una seconda edizione della “Fortnight for Freedom”, una campagna di educazione e di preghiera nazionale sull’importanza della libertà religiosa, che si terrà dal 21 giugno al 4 luglio.
Questa volta a preoccupare è anche la prossima decisione della Corte Suprema sulla costituzionalità del Defense of Marriage Act (Doma), la norma che tutela il matrimonio fra un uomo e una donna. Proprio qualche giorno fa l’arcivescovo di Baltimore, monsignor William Edward Lori, presidente della Commissione per la libertà religiosa della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, si era detto seriamente preoccupato per due motivi. Primo, perché il giudizio del tribunale federale «potrebbe avere un profondo impatto sulla libertà religiosa per le generazioni a venire». E, secondo, per paura che sia lesa l’obiezione di coscienza dei ministri che celebrano il matrimonio. Per questo, Salvatore Joseph Cordileone, arcivescovo di San Francisco e guida del comitato per la promozione e la difesa del matrimonio della Conferenza episcopale, ha evidenziato che «questo è il momento in cui bisogna raddoppiare i nostri sforzi, le nostre preghiere e le nostre testimonianze».