«Guardiamo all’appuntamento del 10 maggio in piazza San Pietro con il Papa. Davanti a Lui e con Lui, riaffermeremo l’urgenza del compito educativo; la sacrosanta libertà dei genitori nell’educare i figli; il grave dovere della società – a tutti i livelli e forme – di non corrompere i giovani con idee ed esempi che nessun padre e madre vorrebbero per i propri ragazzi; il diritto a una scuola non ideologica e supina alle mode culturali imposte; la preziosità irrinunciabile e il sostegno concreto alla scuola cattolica. Essa è un patrimonio storico e plurale del nostro paese, offre un servizio pubblico seppure in mezzo a grandi difficoltà e a prezzo di sacrifici imposti dall’ingiustizia degli uomini: ingiustizia che i responsabili fanno finta di non vedere pur sapendo – tra l’altro – l’enorme risparmio che lo Stato accantona ogni anno grazie a questa peculiare presenza».
Con queste parole, scandite il 24 marzo scorso davanti all’assise dei vescovi italiani, il cardinale presidente della Cei Angelo Bagnasco ha delineato il contenuto della “Festa della scuola” che si svolge a Roma alla presenza di papa Francesco.
Eminenza, il suo ultimo discorso alla Cei ci è sembrato contenesse accenti di particolare preoccupazione per lo stato dell’educazione e della libertà di educazione. In Italia e, forse, più in generale, nel panorama dell’Europa secolarizzata. Eppure, perfino il giacobino Danton, già nell’epoca della rivoluzione francese ammetteva che «àpres le pain l’education est le premier besoin du peuple», dopo il pane, l’educazione è il primo bisogno del popolo. Costa sta accadendo?
La mia riflessione partiva da un fatto clamoroso che ha sconcertato non soltanto me. Mi riferivo all’iniziativa di tre opuscoli che sono stati fatti circolare nelle scuole del nostro paese con la “nobile” motivazione di “Educare alla diversità a scuola”. In realtà, scorrendo i testi, si trattava di una presentazione volgarizzata dell’ideologia del “gender”, che riduce la differenza sessuale a un dato culturale, lasciato alla libera interpretazione dei singoli. Al punto da suggerire che non si utilizzino più termini come “padre” e “madre”, i quali, facendo riferimento alla distinzione tra il maschile e il femminile, potrebbero introdurre delle laceranti discriminazioni. Quando si arriva a teorizzare simili amenità e, addirittura, si pretende di imporle a tutti tramite la scuola senza tenere in alcun conto le famiglie, si capisce che si è superato il limite. Anche il ministero è corso ai ripari, ritirando la diffusione di questi opuscoli di rieducazione umana, ma la scuola appunto non può trasformarsi in un campo di rieducazione, dove si riscrivono le elementari certezze dell’umano.
Educare è – per richiamare la citazione di Danton – un bisogno umano di base, è veramente come il pane per alimentare una struttura personale solida e serena. Senza educazione non c’è possibilità di crescere come persone libere e responsabili. Come vescovi, avvertiamo l’esigenza di investire con rinnovato impegno nella formazione, risvegliando le coscienze di genitori, educatori, associazioni, perché in gioco c’è lo stesso destino umano. La domanda da farsi oggi non è tanto: che mondo lasceremo ai nostri figli? Ma, a quali figli lasceremo il nostro mondo! Sono persuaso che investire oggi nell’educazione sia fondamentale, perché senza coltivare l’umano, mettendolo al riparo delle ideologie, si corre il rischio di falsare la persona per quello che è.
Per quanto riguarda la situazione della scuola pubblica in Italia, sorprende che pur essendo tutti a conoscenza del fatto che essa è per legge costituita da scuola statale e scuola paritaria, non vi sia ad oggi nessun atto politico, e soprattutto governativo, che riconosca e finanzi questo sistema. Le scuole paritarie fanno risparmiare molti soldi allo Stato ma lo Stato continua a ignorarle, mentre a decine chiudono i battenti per l’insostenibilità dei costi e delle tasse. Può essere una legge sull’autonomia scolastica come quella proposta dai laici professori Andrea Ichino e Guido Tabellini una riforma apprezzabile anche da parte cattolica?
In realtà, già dal 2000 il parlamento italiano si è espresso a favore della libertà di educazione, riconoscendo in questo un preciso diritto, che va garantito al cittadino che è libero di scegliere la scuola per i propri figli. Il problema è che siamo inchiodati al riconoscimento teorico, e non si arriva mai alle conseguenze pratiche. Se tutti i cittadini pagano le tasse, non si capisce perché quelli che decidono di mandare i loro figli in scuole non gestite dallo Stato debbano pagarle di nuovo per sostenere le rette scolastiche. È la scuola un diritto o no?
In questa vicenda che fa dell’Italia il fanalino di coda della scuola libera in Europa, scontiamo un deficit storico e, ancora una volta, un pregiudizio ideologico. Non si riesce a capire, da parte di molti, che la scuola è un bene pubblico, cioè una opportunità messa a disposizione di tutti e che la gestione della scuola non deve essere assorbita esclusivamente dallo Stato. Esso deve aprire anche ad altri soggetti culturali e sociali, in virtù del principio di sussidiarietà.
Fortunatamente, in questi ultimi tempi, sta crescendo, anche tra opinionisti e uomini politici di tutti gli schieramenti, la consapevolezza che solo un paese che garantisce veramente l’accesso a tutte le scuole rende un servizio pubblico. Tra gli autori che, seguendo un ragionamento del tutto alieno da presupposti religiosi optano per una scuola che va “liberata”, ci sono certamente gli autori da lei citati. Essi riconoscono che è un bene per tutti se la scuola viene messa in condizione di offrire un servizio pubblico, grazie ad una pluralità di soggetti, statali e paritari, che ne garantiscano il corretto funzionamento.
Riprendendo l’osservazione di papa Francesco sulla famiglia, questa realtà tanto «disprezzata e maltrattata», lei ha commentato: «Disprezzata sul piano culturale e maltratta sul piano politico». Ha pure aggiunto che i genitori non devono farsi intimidire perché hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga. Che cosa la preoccupa?
La mia più che una preoccupazione è una convinzione radicata nel profondo. Papa Francesco, del resto, individuando nella famiglia il tema del prossimo Sinodo, è come se avesse voluto indicare una priorità da cui tutto il resto dipende. La società non tiene se non regge la famiglia. Naturalmente, ciò che è decisivo è mostrare, grazie a storie e volti concreti, la bellezza e la possibilità di questa esperienza. La famiglia è palestra e grembo di vita: fa uscire la persona dall’isolamento, integrando in sè la differenza di genere e quella delle generazioni. Se si diventa incapaci di mettere insieme la differenza di genere, si scivola verso una omogeneità che non è gravida di futuro, ma rischia di appiattirsi sul presente. Così se non si integrano le generazioni, ad esempio i giovani e gli anziani, il rischio è quello di procedere divisi e alla lunga contrapposti. Ma così non si va da nessuna parte. Ecco perché la famiglia è la cellula della società e patrimonio universale.
Lei sostiene che «è una visione iperindividualista all’origine dei mali del mondo, tanto all’interno delle famiglie quanto nell’economia, nella finanza e nella politica. Bisogna accelerare la conversione dall’io al noi e dal mio al nostro: non certo nel senso che non esistono più l’io e il mio, ma nel senso che mai più dovranno essere intesi come degli assoluti». Concretamente, come si fa e come si sostiene questo cammino di conversione?
L’iperindividualismo è l’esasperazione dell’io che smarrisce il suo essere relazione e si illude di potersela cavare da solo. Dietro a questa deviazione c’è un errore di prospettiva: pretendere di essere autosufficienti, dimenticando che abbiamo ricevuto tutto. Questa miopia a lungo divide, contrappone e conduce a una sistematica lotta di tutti contro tutti. Bisogna, invece, riscoprire i legami come delle opportunità e non già delle mortificazioni. La relazione è esigente, ma è pure una risorsa. E la convergenza, oggi più che mai, deve essere intesa come una strada obbligata.
A livello tecnologico, siamo quasi condotti per mano a capire la necessità di unire gli sforzi, di razionalizzare le energie e di concentrare le opzioni. Ma anche a livello umano non si fatica a scoprire quanto i legami affettivi stabili siano il miglior antidoto alla depressione e alla sfiducia. Non a caso, anche in questa stagione di crisi nel nostro paese, non si è giunti a uno scontro sociale perché la famiglia ha funzionato da ammortizzatore sociale e, innazitutto, come pozzo di fiducia. Dunque, l’individualismo si supera con dosi consistenti di esperienza familiare. Passata questa possibilità tutto si fa più difficile.
In questa vigilia di elezioni europee, grande è lo sconcerto per la disaffezione verso le istituzioni dell’Unione Europea. In cosa le sembra mancante e cosa dovrebbe cambiare questa comunità politica che appare oggi tanto distante dai suoi leader politici e princìpi fondativi?
La retorica sull’Europa monetaria ha presto ceduto il passo al disincanto. Ma era inevitabile che ciò accadesse, perché mai l’economia da sola può fungere da collante. Semmai esaspera le divisioni. Per questo, chi ha osservato sin dall’inizio dell’Unione Europea che l’unità non si costruisce su presupposti solo economici e funzionali, aveva visto giusto. I popoli possono convergere se condividono una ispirazione comune, cioè una visione delle cose e della vita, che accomuna al di là delle legittime differenze di interessi e di sensibilità. Il punto è che quando si parla di radici spirituali dell’Europa, subito scatta un meccanismo di fastidio e di reazione e non ci si rende conto che l’unità non si impone dall’esterno, ma si costruisce a partire dall’interno. Spero che le prossime elezioni europee abbiano al centro temi e problemi che privilegiano questa consonanza di ideali, e non semplicemente la rincorsa demagogica di voti e di rendite di posizione.