Un milione di euro e passa. Basta una cifra per capire perché il traffico di uomini sulle rotte del Mediterraneo prolifera e non c’è Triton che tenga. Un milione di euro e passa è quanto avrebbero guadagnato – stando alle cifre medie di questo macabro mercato – i trafficanti dai 900 uomini stipati come sardine su quella scatoletta lasciata in balia delle onde, che sabato è affondata al largo della Libia. «Solo per quell’ultimo tratto di viaggio dalla Libia verso l’Italia o la Spagna, i trafficanti chiedono dai 1.000 ai 1.500 euro», spiega a tempi.it Andrea Di Nicola, criminologo dell’università di Trento e autore di Confessioni di un trafficante di uomini, scritto insieme al giornalista di Radio24 Giampaolo Musumeci.
Avete realizzato il libro contattando direttamente quelli che comunemente sono chiamati “trafficanti”. Avete incontrato anche El Douly, uno dei “signori della tratta”, che opera proprio nelle rotte tra Libia e Italia. Chi è El Douly?
El Douly è un mercante di uomini che lavora in Egitto per le rotte africane dall’Eritrea e Somalia. Si tratta di un 40enne, molto informato di ciò che avviene in Europa, dato che leggeva i quotidiani internazionali tutti i giorni, e che è al vertice di quella che potremmo definire la più grande “agenzia di viaggi della speranza” per il Mediterraneo. El Douly ha una rete di agenti sul territorio, e chi vuole partire – che sia un siriano, un eritreo o un etiope – sa che deve contattare loro. Sebbene i numeri di questi agenti siano ridotti, sono persone con numerosi contatti e ben conosciute. El Douly ci raccontava che li sceglieva stupidi e leali, perché non gli facessero le scarpe. Per i suoi contatti in Libia in particolare ci ha parlato di persone che provenivano dalle tribù. Con il giornalista Musumeci, siamo arrivati a lui tramite i nostri contatti dopo due anni di caccia e dopo che spesso ci aveva lasciato attendere agli appuntamenti. Lo abbiamo incontrato al Cairo più volte nel corso di tre giornate e abbiamo a lungo parlato.
Che cosa vi ha rivelato?
Gli abbiamo subito chiesto se era un grande boss. Lui parlava fluentemente inglese e francese, e conosceva tutti i dialetti arabi. Aveva tre telefonini che continuavano a squillare, mentre lui continuava a rispondere: “Sì certo, si può fare”. Sembrava Obama: per lui era un “yes, we can” continuo. Ecco perché secondo noi si poteva definire un grande boss di questo traffico. Invece alla nostra domanda rispose: “Non avete capito niente. Qui non ci sono capi, noi siamo una rete. E una rete è fluida”. Significa che si fa business solo con i migliori e quindi che tutto continua a cambiare. Ieri il migliore era El Douly, ma domani potrebbe essere un altro. Non importa, il traffico “must go on”, deve andare avanti. I signori della tratta hanno creato rapporti di fiducia stabili tra di loro, sanno collaborare e sono organizzati meticolosamente. Non agiscono mai in maniera “emergenziale”, come invece fanno i paesi Europei, che non sono capaci di fare qualcosa in modo organizzato. Qui in Europa si parla esultando di scafisti arrestati. Ma lo scafista è solo l’ultimo anello della catena.
Perché?
Già il termine “scafista” è errato. Non è importante colui che pilota la barchetta, lo scafista in senso stretto, ma lo smuggler, colui che lavora come organizzatore del viaggio. Alcuni dei 997 “scafisti” arrestati nell’ultimo anno sono anche smuggler ma di solito chi sta sulla barca non è l’organizzatore, anzi. Tracciando un paragone con un altro traffico criminale, quello della droga, chi è sulla barca corrisponde un po’ al piccolo spacciatore. Certo fa parte anche lui della rete, ma non è il grande trafficante colombiano, né il suo referente europeo. Più che pensare agli scafisti, occorre capire invece come questi grandi criminali siano capaci di irridere i buchi dell’Europa. Bisogna capire perché più in Europa si alzano le barriere, più i trafficanti sono capaci di operare, con costi crescenti.
Mettere più controlli ai confini ha alzato i costi dei viaggi della speranza in mare?
Sì. I trafficanti sfruttano persone disperate e queste non si esauriscono né purtroppo diminuiscono. Non serve alzare barriere: gli smuggler sono violenti e sanno bene che arriverà sempre qualcuno da fregare.
Quanto costano i viaggi sulle barche che vediamo arrivare in Italia?
A chi parte dalla Siria vengono chiesti dagli otto ai 10 mila dollari. Se contiamo che solo per la rotta dalla Libia alla Sicilia chiedono 1.000 o 1.500 euro, per la barca affondata sabato gli smuggler hanno raccolto un milione di euro. Alcuni di questi boss guadagnano qualcosa come 6 milioni di euro all’anno a testa, in nero, quindi esentasse. Loro sono decine. Frontex nell’ultimo anno ha risucchiato 90 milioni di euro. Basta mettere vicine queste cifre per capire che stiamo svuotando il Mediterraneo con un cucchiaino.
Cosa bisognerebbe fare?
L’Italia è l’unica che sta uscendo a testa alta da questa vicenda, dato che con Mare Nostrum ha impiegato reali risorse per salvare persone, mentre l’Ue non faceva nulla. Nel momento in cui è partita Triton, è iniziata di nuovo la confusione. Un’operazione di pattugliamento non serve a nulla. Bisogna guardare l’insieme: se si chiude un tratto di costa libica, gli smuggler si sposteranno di qualche chilometro o cambieranno tratta. El Douly ci diceva anche che il trattato di Dublino è un’arma che usano contro di noi, perciò occorrerebbe ripensare anche le politiche sull’immigrazione di tutta l’Ue. L’Ue si sta comportando in maniera irresponsabile, stiamo alimentando un traffico che può arrivare al terrorismo.
In che modo?
Una delle tribù libiche che ricava dallo smuggling può ben decidere di finanziare l’Isis, considerandolo un’altra forma di investimento. Escludo categoricamente invece forme di “infiltrazione” terroristica sui barconi: una volta su due chi va in mare muore, è un viaggio che lasciano ai disperati.
Le primavere arabe hanno aiutato i signori della tratta?
Tutte le primavere arabe hanno sicuramente influito e hanno fatto sì che le rotte con Italia, Spagna e Cipro divenissero quelle principali, su cui si concentrano i più grossi trafficanti. Saremmo dovuti intervenire all’epoca. Tuttavia faremmo peggio se oggi andassimo in un certo paese, ad esempio la Libia, e muovessimo guerra alle tribù, pensando che in quel modo il traffico sparirebbe. Assolutamente non servirebbe a nulla, se non a spostare di qualche chilometro il punto di partenza dei viaggi. I trafficanti semplicemente riorganizzerebbero le loro rotte. Per questo anche un blocco navale al largo delle coste non servirebbe a nulla. Piuttosto ha senso intervenire in quei paesi concentrando tutti i richiedenti asilo in campi di rifugiati, ad esempio in Egitto. Significherebbe togliere un terzo dei potenziali clienti ai trafficanti, e quello sì che sarebbe un colpo durissimo.
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